Per la seconda volta quest’anno (la prima era stata a giugno), mercoledì la Federal Reserve ha deciso di mantenere i tassi di interesse invariati in un range tra il 5,25% e il 5,5%. Come ci spiega l’economista Domenico Lombardi, direttore del Policy Observatory della Luiss ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, «negli Stati Uniti gli indicatori puntano su una stabilizzazione del quadro inflattivo con valori, nel complesso, in lenta ma progressiva diminuzione. I tassi di interesse sono ai livelli più alti degli ultimi 22 anni e l’aspettativa è che vi rimarranno almeno fino alla fine del 2024».



All’interno del Fomc, però, c’è chi vorrebbe un ulteriore aumento dei tassi entro la fine del 2023.

Sì, potrebbe esserci un altro rialzo di un quarto di punto il prossimo novembre o dicembre. Tuttavia, il Presidente Powell ha ribadito più volte nella conferenza stampa di mercoledì l’esigenza di procedere con cautela. Dunque, non è scontato che vi sarà un altro aumento dei tassi. In ogni caso non cambierebbe il quadro della politica monetaria della Fed: si è vicinissimi al tasso terminale, o forse è stato già raggiunto, che permarrà per un periodo relativamente lungo di tempo – più lungo di quanto gli stessi membri del Fomc avevano precedentemente stimato. Dopodiché dovrebbe cominciare una graduale discesa dei tassi. C’è, poi, un altro elemento importante da sottolineare.



Quale?

È aumentata la fiducia della Fed di poter raggiungere la disinflazione con un soft landing. I dati attuali indicano, infatti, che l’economia americana si è mostrata particolarmente resiliente, sia dal punto di vista della crescita del Pil che del mercato del lavoro. Anche la recessione da tanti paventata non si è finora materializzata. In questo senso i rischi arrivano più dall’esterno che non dall’interno: se gli stress che osserviamo in alcuni settori si dovessero estendere al resto dell’economia cinese, questo avrebbe, infatti, un impatto sistemico sull’economia mondiale.



Si può ritenere che la Bce sia nella stessa situazione della Fed?

L’Eurozona è più sensibile a uno shock energetico, ed è economicamente più fragile. La sua principale economia, la Germania, è in difficoltà e dovrebbe chiudere l’anno con un Pil in contrazione. Nel complesso, quindi, il quadro macroeconomico dell’Eurozona appare più deteriorato rispetto a quello americano. Mi auguro che questo possa incidere anche sulle decisioni che la Bce prenderà nei prossimi mesi. I tassi di interesse sono cresciuti con una velocità senza precedenti e con un’entità particolarmente significativa. Anche alla luce della decisione della Fed, ritengo che la Bce potrà prendersi una pausa e valutare l’impatto delle decisioni prese sino a questo momento.

Di sicuro un impatto lo si sta già vedendo, come ha ricordato il ministro dell’Economia Giorgetti, nella spesa per gli interessi sul debito…

Sì, limitando così ulteriormente il già ristretto margine di manovra di Paesi ad alto debito come l’Italia. Che peraltro ha beneficiato delle politiche di acquisto e riacquisto dei titoli di stato della Bce, che sono ancora parzialmente in vigore fino alla fine del prossimo anno. Se l’Eurotower dovesse rivedere in senso restrittivo questa decisione, i margini di manovra si restringerebbero ulteriormente.

Nell’Eurozona è comunque più difficile che venga raggiunto quel soft landing che la Fed vede invece a portata di mano.

A oggi, il soft landing non lo si scorge nell’Eurozona, visto che la sua più importante economia è entrata in recessione già dal primo trimestre di quest’anno. Si vede, allo stesso tempo, l’impatto dell’inasprimento della politica monetaria. È un elemento che dovrebbe mitigare la prospettiva di nuovi rialzi da parte della Bce e rafforzare l’ipotesi di una stabilizzazione della politica monetaria attorno al livello attuale dei tassi.

Il soft landing non si scorge anche perché negli Usa c’è un sostegno fiscale all’economia che nell’Eurozona non si vede…

Sì, questo sostegno peraltro opera nell’ambito di un’economia che cresce più del tasso potenziale di lungo periodo pari all’1,8%. Nell’Eurozona, invece, la situazione è completamente diversa dal momento che le principali economie stanno mostrando segni di affanno, soprattutto la prima. Anche l’Italia ha mostrato una contrazione del Pil, del tutto inattesa, nel secondo trimestre dell’anno.

La Bce dovrebbe tenere conto del quadro macroeconomico dell’Eurozona nel prendere le future scelte di politica monetaria, ma anche la Commissione e i Paesi membri nel mettere a punto le regole fiscali che dovrebbero entrare in vigore l’anno prossimo.

L’introduzione della riforma del Patto di stabilità così come proposta dalla Commissione consentirebbe di gestire questo tipo di contingenza, perché prevede la stabilizzazione fiscale di un Paese che ne avesse necessità in un’ottica di medio termine, proprio per consentire un maggiore spazio di manovra nel breve periodo se le condizioni congiunturali dovessero richiederlo. Bisognerà vedere se questa proposta passerà nei suoi aspetti fondamentali o se, invece, verranno inseriti dei paletti miranti a esercitare un controllo a elevata frequenza, magari annuale, come chiede la Germania. In quel caso la situazione per l’Italia sarebbe sicuramente più difficile.

L’Italia cosa deve fare in questa prospettiva, visto soprattutto che il rallentamento della crescita potrebbe protrarsi anche nel 2024?

Deve evitare che l’attuale congiuntura di crescita fiacca e il deterioramento delle prospettive economiche globali e regionali possano porre un freno alle riforme. Anche la sola percezione che questo possa accadere sarebbe deleterio, soprattutto per le aspettative negative che si verrebbero a determinare. In una situazione di elevato debito pubblico e con un aumento del suo costo di rifinanziamento, occorre stabilizzare le aspettative dei mercati, oltre che rendere, ovviamente, un servizio ai cittadini. E questo lo si può solo fare premendo l’acceleratore sulle riforme, in particolare quelle a basso impatto sul bilancio pubblico e che contribuiscono a creare un contesto di crescita favorevole. Lo spread sta salendo e il modo migliore per stabilizzarlo è attraverso una prudente politica fiscale e una stance aggressiva in merito all’agenda delle riforme.

A quali riforme occorrerebbe dare la priorità?

È chiaro che bisogna salvaguardare innanzitutto le famiglie con redditi medio bassi, quindi la riduzione del cuneo fiscale rappresenta sicuramente una priorità. Bisogna poi semplificare il rapporto tra fisco e cittadini e in generale agevolare l’attività d’impresa, riducendo gli oneri burocratici. La riforma fiscale, che invece ha un impatto non indifferente sul bilancio, va comunque perseguita spalmandone gli effetti, e i benefici, in un arco pluriennale. Infine, occorre consentire alle Pa di poter scaricare a terra gli investimenti pubblici finora programmati. In questo modo sarebbe anche possibile compensare il calo degli investimenti privati indotto dall’inasprimento della politica monetaria.

(Lorenzo Torrisi)

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