Allo scoppio della Bolla Internet di inizio millennio, il Nasdaq lasciò sul terreno il 46% del suo valore nel giro di poche sedute. Meno di quel che i listini delle obbligazioni e dei titoli di Stato dotati di rating hanno perduto rispetto al picco del 2020, all’apice della stagione dei tassi negativi: il 49%, alla faccia degli investimenti sicuri.
Stavolta, insomma, lo sboom ha colpito i portafogli che si credevano più tranquilli. Ma non è questa la caratteristica principale della corsa al rialzo del rendimento dei titoli, balzati oltre soglie storiche. Stavolta, a differenza delle crisi precedenti (compresa la frana dei subprime nel 2007/8), all’origine del crollo non è il comportamento dei mercati, bensì una manovra cosciente delle banche centrali, scese a combattere in armi per evitare che il mondo ripiombasse nella stagflazione anni Settanta.
L’azione delle banche centrali non è stata certo agevolata dalla politica fiscale dei Governi, sia in Europa che Oltreoceano. Inoltre, a render più complicata la raccolta dei capitali necessari per far marciare la macchina delle economie ci sono state tensioni geopolitiche vecchie e nuove: i cinesi non comprano più titoli del Tesoro americano e non rinnovano quelli che scadono; i giapponesi hanno finalmente rendimenti un po’ più interessanti a casa loro e vendono i titoli del Tesoro americano, di cui sono stati sempre grandi compratori; la Federal Reserve, il più grande asset manager del mondo (7,3 trilioni di titoli del Tesoro nel suo System Open Market Account), non vende i suoi titoli, ma non li rinnova quando scadono, Anche la Bce è in parte costretta a praticare una politica analoga, che non ha comunque evitato la svalutazione progressiva dell’euro sull’onda della migrazione dei capitali.
Il risultato è stato che i decennali, a partire dal T-bond Usa, hanno imboccato la strada del rialzo. Tra l’altro, per paradosso, quando si profilavano i primi consistenti successi sul fronte dell’inflazione: il decennale di Washington è salito fino alla soglia del 5%, varcata dai nostrani Btp, mentre i Bund sono arrivati oltre il 3%. Un anno fa il T-bond rendeva il 3,70% a fronte di un’inflazione dell’8,2%. Il cambio di rotta epocale ha senz’altro favorito l’azione di Jerome Powell e Christine Lagarde, aiutando a raffreddare l’economia e ci si è così affidati ai mercati finanziari come cinghia di trasmissione. La sopravvalutazione raggiunta in agosto da alcuni segmenti dei mercati azionari ha certamente reso ancora più attraente l’idea di sfebbrarli con una sana correzione, trasmettendo così a tutti un messaggio di sobrietà rilanciato con grane enfasi dai banchieri centrali da Jackson Hole in poi. Un gioco finora baciato dalla fortuna, perché, in barba alle previsioni, l’economia americana ha retto bene.
Anche in Europa, del resto, l’inflazione ancora ruspante ha contribuito a sostenere l’ascesa dei rendimenti benedetta dai bond vigilantes in attesa di festeggiare sulle ceneri del debito pubblico degli Stati la riscossa del Bot people, grande protagonista della raccolta record di Btp Valore resa possibile dal gigantesco stock di risparmio, circa 130 miliardi, eredità della pandemia ancora in mano alle famiglie più abbienti.
Ma andrà proprio così? La grande corsa dei tassi volge al termine, assieme al calo dell’inflazione oppure dobbiamo abituarci a una lunga fase di penitenza sull’onda di un costo del denaro “stabilmente alto’? Il futuro ci riserva, ha notato un banchiere inglese, una marcia sull’altipiano del Sud Africa, piatto ma su livello elevati. Non è tempo per i passaggi alpini, con una vetta isolata come il Cervino rispetto al piano. Per ora, insomma, il mantra è “higher for longer”, cioè tassi alti ancora per un bel po’. La speranza è che si mantenga una crescita positiva delle economie accompagnata dall’andamento favorevole dell’occupazione. In questo caso Fed e Bce manterranno per prudenza i tassi sui livelli attuali per sei-nove mesi per poi tagliarli l’anno prossimo di quei 50 punti base che ha indicato nelle previsioni l’ultimo Fomc. Questo è lo scenario più virtuoso. Ma, come sempre, non sono poche le incognite in agguato.
Certo, il lungo e spettacolare aumento dei tassi volge al temine. Negli Usa si è passati da zero al 5,25%, nell’Eurozona da +0,5% al 4%, la più brusca accelerazione da quarant’anni. Ma ora si è entrati nella fase due: la pressione dei tassi si esercita sui conti pubblici, con pesanti riflessi per il Paesi più indebitati. Reggerà il Tesoro italiano all’eventuale retrocessione di Moody’s che tra un mese emetterà il suo verdetto sui debito italiano? Probabilmente sì, anche perché nel mirino non c’è solo il Bel Paese. Ma si profila Oltreoceano un altro uragano: gli Usa rischiano di perdere una volta per tutte la tripla A.
Ma le conseguenze toccano anche altri campi di attività. La tenuta dei mercati azionari dimostra che le società hanno saggiamente fatto il pieno di capitali nella stagione del denaro a basso costo, ma la situazione non è la stessa per tutti. Il mercato del mattone scricchiola negli Usa, complice l’aumento dei mutui oltre la soglia dell’8% e la crisi degli edifici commerciali. Ancor più grave la crisi cinese che si trascina ormai da anno compromettendo il rilancio dell’economia. All’elenco occorre aggiungere anche la Germania: il gruppo immobiliare Adler, già considerato in passato così solido da poter piazzare nel 2021 obbligazioni al 2,5%, è stato costretto il 29 settembre a emettere un prestito al 21%.
Per qualcuno il riequilibrio dell’economia promette di essere brutale. E non è finita qui.
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