Dopo la decisione della Fed di alzare il tasso di riferimento di 50 punti base, un rialzo “doppio” ed eccezionale rispetto agli ultimi decenni, i principali indizi azionari americani hanno virato al rialzo chiudendo con un rotondo +3%, le materie prime, oro e petrolio per citarne due, sono salite e infine il dollaro si è indebolito contro l’euro. Per i mercati l’annuncio della Federal Reserve, sia sui tassi che sul ritmo di riduzione del bilancio dal primo giugno 2022, è stato accomodante. Negli ultimi giorni si era fatta strada l’ipotesi che il rialzo potesse arrivare a 75 punti base; il ritmo di riduzione del bilancio della Fed, circa 50 miliardi di dollari al mese da giugno, rispetto all’eccesso di liquidità ancora presente sui mercati, quasi 3.000 miliardi, lascia margini di manovra ampi.
La Fed ha dichiarato che il conflitto in Ucraina crea “ulteriore pressione sull’inflazione” e probabilmente “peserà sull’attività economica”; la banca centrale scrive anche che i lockdown in Cina peggioreranno ulteriormente lo stato delle catene di fornitura globale. La Fed ha dichiarato infine di essere molto “attenta ai rischi sull’inflazione”. L’obiettivo “di lungo termine” di un’inflazione al 2% rimane sospeso senza un chiaro orizzonte temporale. Oltretutto Powell specifica che la banca centrale è pronta a cambiare la politica monetaria se emergessero rischi per il raggiungimento dei suoi obiettivi: massima occupazione e inflazione al 2%.
La narrazione sull’inflazione è cambiata radicalmente rispetto a questo autunno quando si sposava la tesi della sua transitorietà dovuta alla violenza delle chiusure e poi delle riaperture. Nessuno si fa più illusioni sia per la guerra che per l’impatto delle decisioni prese in queste settimane dalla Cina sui commerci globali, la disponibilità di beni e infine sui prezzi. Allo stesso modo la Fed sembra aver preso qualche mese di tempo rispetto a un’inversione più decisa della politica monetaria; 2 o 3 mesi in questo contesto geopolitico sono un’era geologica per gli investitori.
La banca centrale americana consente alla Bce di prendere tempo, da qui il “rafforzamento” dell’euro, e di rimandare un rialzo dei tassi. Ieri diverse banche centrali, per anticipare la Fed, hanno invece alzato i tassi. La Bce, che ha mantenuto la tesi della transitorietà dell’inflazione più a lungo di tutti, non potrà esimersi perché l’indebolimento dell’euro visto negli ultimi mesi peggiora l’inflazione e il differenziale sui tassi spinge i capitali fuori dall’area euro. L’economia dell’Unione europea è già oggi particolarmente impattata dal conflitto e lo sarà esponenzialmente di più a ogni stretta sulle sanzioni. Il blocco delle importazioni di gas, secondo stime autorevoli, si pensi alla Bundesbank o all’industria tedesca, potrebbe far precipitare il continente, che non ha materie prime, in una recessione di cui è difficile vedere il fondo.
La Banca centrale europea ha un secondo problema da gestire che è quello degli spread. Quello tra Btp e Bund si è spinto ai massimi dal 2020 nonostante Draghi. C’è una sola politica monetaria per Stati con politiche fiscali, energetiche, debiti pubblici molto diversi. L’area euro può attingere a un arsenale, già a buon punto, per gestire crisi dei debiti sovrani, ma questo avviene iniettando volatilità politica e sociale nei Paesi “salvati”. Quanto successo in Grecia è solo un piccolo esempio.
Ci sono tutte le condizioni, a partire dai lockdown in Cina, per un possibile peggioramento dell’inflazione. Le decisioni prese in questi mesi in tema di sanzioni, a partire dal sequestro delle riserve in euro e dollari detenuti dalla Russia, impongono una riduzione del bilancio della Fed; il dollaro è stato in queste settimane sostituito in alcune transazioni tra Stati. Il rafforzamento del rublo contro il dollaro continua ogni giorno.
Con la decisione di ieri la Fed ha aiutato i mercati e dato un assist a una Bce in grande difficoltà. Non è chiaro fino a quando possa durare questo “armistizio”, soprattutto se l’inflazione dovesse accelerare ancora.
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