La Federal Reserve ieri ha deciso di tenere invariati i tassi, ma, alla luce degli ultimi sviluppi sull’inflazione, anche di ridurre il ritmo degli acquisti di titoli di stato e “MBS” (mortgage back securities). La banca centrale ha posto, ancora una volta, l’accento sul raggiungimento dell’obiettivo di massimo impiego che non è ancora arrivato.
Dopo l’annuncio, i principali indici azionari americani sono saliti con forza, il dollaro si è indebolito segnalando l’apprezzamento degli investitori. Evidentemente si era fatta strada la possibilità di una sorpresa negativa che invece non c’è stata. Da almeno tre mesi l’inflazione negli Stati Uniti, ma non solo, è arrivata a livelli che non si vedevano da decenni. Fino a un mese fa la narrazione era quella di un fenomeno transitorio dovuto agli shock prodotti dalla pandemia; nelle ultime settimane il termine transitorio è stato abbandonato. Nella prima settimana di dicembre sia Jerome Powell che Janet Yellen hanno ritrattato in pubblico l’aggettivo; a difenderlo è rimasto un gruppo sempre più piccolo che ha i più strenui difensori in Europa.
Tutto fa pensare che nei prossimi mesi il dato possa peggiorare. Citiamo una ragione su tutte: dal primo gennaio una quantità sterminata di imprese rivedrà i listini di beni e servizi scaricando a valle i costi che finora erano rimasti, sicuramente in parte, nei bilanci delle società. Se lo sappiamo noi lo sa sicuramente anche Powell. La domanda da porsi è come mai si stia ancora posticipando il momento del rialzo.
All’inizio di questa settimana uno dei più iconici investitori globali, El Erian, si è preso la responsabilità di dire in televisione che il termine “transitorio” è stata la peggiore stima sull’inflazione della storia. Le osservazioni degli economisti non bastano. Il problema dell’inflazione è politicamente ancora nuovo anche se la progressione, rispetto a settembre, è stata rapidissima. L’economia porta ancora le cicatrici della prima ondata della pandemia “curata” con i lockdown, i sussidi coinvolgono massicciamente ancora una larga parte della popolazione; interi settori, si pensi al turismo, sono ancora in mezzo al guado. Soprattutto i debiti privati e statali negli ultimi diciotto mesi sono esplosi. Qualsiasi politica restrittiva della Fed avrebbe impatti molto superiori a due anni fa. I rischi di “rompere” l’economia sono sensibili.
Evidentemente l’inflazione deve salire ancora prima che la Fed o la politica si possano prendere la responsabilità di provare ad alzare i tassi. Tutto questo avviene in uno scenario completamente nuovo. Siamo in aperta e piena guerra commerciale; un intero blocco economico e geopolitico si sta progressivamente staccando dal dollaro. La svalutazione della lira turca cui abbiamo assistito nelle ultime settimane sarebbe stata impensabile nel vecchio mondo. Oggi avviene perché c’è un intero blocco che si sta smarcando dal dollaro. Ancora ieri la Cina imponeva un lockdown di 14 giorni nel distretto confinante con il porto di Ningbo. Le pressioni sulle catene di fornitura globale sono un fatto estraneo alle politiche monetarie. Le tensioni geopolitiche che spostano un intero blocco al margine della sfera di influenza del dollaro anche.
In questo scenario sarebbe più complicato iniziare un percorso di rialzo dei tassi le cui conseguenze sarebbero difficili da prevedere rispetto a qualche anno fa. Potrebbe accadere, per esempio, che un ulteriore peggioramento delle catene di fornitura renda meno efficace sui prezzi e sull’inflazione l’intervento della Fed. Tassi più alti potrebbero convivere con sacche dell’economia in cui i prezzi non solo non scendono ma salgono.
Perché la Fed si prenda il rischio di invertire la politica monetaria serve probabilmente un’inflazione più alta; è un’eventualità che non si può affatto escludere. I primissimi mesi del 2022 in questo senso saranno determinanti.
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