Il 15 dicembre si è tenuta l’attesissima conferenza del Presidente della Fed Powell sul nuovo corso di politica monetaria degli Stati uniti a seguito degli andamenti occupazionali e inflattivi; lo si riporta per chiarezza che il tapering, e cioè conclusione del pacchetto di acquisti netti di titoli del debito pubblico statunitense e di titoli obbligazionari privati legati al mercato immobiliare, avrà conclusione a marzo 2022 in anticipo sull’iniziale termine ventilato a novembre (giugno 2022); gli acquisti da 120 miliardi di dollari – a dicembre ridottisi già a 90 miliardi – subiranno tagli di 30 miliardi mensili fino al termine di marzo; a quel punto è stata prospettata l’azione sui tassi di interesse, ma non in maniera programmatica e dichiarativa, ma solo al momento come forte ipotesi di lavoro, che nella sua dimensione è stata quantificata dal grafico dei dot plot, e cioè quel grafico in cui ognuno dei membri del Fomc individua un suo livello del tasso Fed in relazione all’intervallo temporale prescelto; si può così ricavare al momento, da tali dichiarazioni di intenti, un aumento dei tassi per fine 2022 in area 1%, e per la fine del 2023 in area 2% con circa 6-7 interventi di aumento singoli scadenziabili dall’istituto di emissione.
I dati fondamentali macroeconomici a disposizione di Powell al momento sono i seguenti: crescita del Pil al 6% circa nel 2021, tra il 3,8% e il 4,2% nel 2022, tra il 2,5% e il 3% nel 2023; inflazione tendenziale annua sul dato mensile 6,8% di novembre, stime più imprecise per gli anni 2022 e 2023, ma con atteso rientro al 2024 nell’areale del 2% (per inciso sono queste nuove proiezioni ad aver fatto abbandonare alla Fed l’aggettivo di transitorio in merito all’inflazione); per la disoccupazione abbiamo invece un dato intorno al 4-4,5%, in quanto si hanno al tempo stesso sensibili e continuate modificazioni del tasso di partecipazione attiva al mercato del lavoro, e quindi avendosi di fatto modificazioni congiunte di aggregati che si influenzano l’un l’altro e creano perciò effetti illusori, è meglio attenersi ai dati assoluti: mancano rispetto all’inizio della pandemia circa 4 milioni di posti di lavoro (ricordiamo che nel punto infernale della pandemia, probabilmente giugno/luglio 2020, si era arrivati alla perdita forse di 25 milioni di posti di lavoro).
Ha ragione quindi il Presidente Powell quando dice che la gestione della ripartenza dell’occupazione ha portato a traguardi positivi encomiabili, gli resta però di tralice la mancanza di quei 4 milioni ultimi, sui quali ora non può più intervenire con facilità perché ha davanti l’inflazione. Tra le altre cose questi aspetti diretti del suo mandato non li può gestire da una Fed che si comporta come isolata dal mondo, ma come una Fed che ha a che fare con due soggetti istituzionali che gli rendono la gestione un pandemonio di notevole difficoltà quotidiana: stiamo parlando della Casa Bianca e di Wall Street, che sono sul collo della Fed come bestie inferocite.
La Casa Bianca come erba voglio pretende la scomparsa di questi 4 milioni di disoccupati post-pandemici e il ritorno dell’inflazione sotto il 2%, mentre Wall Street non vuol in alcun modo vedere il Dow Jones sotto in modo permanente anche solo tra i 35.000 e i 34.000 punti.
In prima battuta e in modo ironico credo che convenga alla Fed dichiarare guerra alla Casa Bianca piuttosto che alla Cina o alla Russia. Bene, l’ironia così ci conduce al cuore dei problemi: l’inflazione ha alzato la testa in maniera tale da lambire i valori iniziali di un’inflazione moderata, parliamo del 7,5%, e le inflazioni moderate sono quelle da cui iniziano i guai che fanno male in modo duraturo e poco gestibile.
È senz’altro da apprezzare il cambio di tono e di passo della Fed nella gestione in feedback degli eventi, ma tali variazioni sono a mio parere troppo morbide, e credo che questa sia la paura che circola nell’istituto monetario statunitense: hanno a che fare con le richieste di due clienti ingestibili, Casa Bianca e Wall Street.
Io invece credo che per i valori in campo, il tapering si sarebbe dovuto concludere a fine gennaio e che il percorso dei tassi di interesse, già avrebbe dovuto essere presentato molto più chiaro e preciso nella scansione degli interventi temporali, e soprattutto gli interventi stessi più rigorosi e forti; a dirsi 2% a fine 2022, 4-4,5% a fine 2023 se necessario.
Questo perché secondo me, per le stime che sto effettuando, il percorso inflattivo, al coeteris paribus di oggi, lo vedo nel seguente modo:
6,8%-7,2% dicembre 2021;
7 %-7,4% gennaio 2022;
7,2%-7,7% febbraio 2022;
7,5%-7,8% marzo 2022;
7,7 %-8,2% aprile 2022.
I motivi di fondo di tale sequenza sono dati da: continuazione dello stato di esogeneità delle variazioni legate alle risorse energetiche, in particolare il petrolio, variazione ampia e diffusa delle aspettative delle PMI e dei consumatori degli Stati Uniti, maggiori cautele e sforzi per affrontare la variante Omicron del Covid-19. Il combinato disposto di questi tre fattori costituisce lo schema di fondo su cui poi andranno via via a impattare fenomeni inflattivi secondari, se nel frattempo non si attivano politiche di contenimento.
Cerchiamo però anche per chiarezza e giustezza delle argomentazioni di provare a ipotizzare le ragioni adducibili come punti di forza da parte di Casa Bianca e Wall Street.
In sostanza, la Casa Bianca sta mandando il messaggio agli americani e al mondo che è ancora e di gran lunga il luogo dove c’è il maggiore potere del mondo, potere che ha tra le sue manifestazioni quelle di portare a ragionevolezza e accordi consequenziali le ragioni di Russia e Cina; allora per tale motivo il Presidente Fed deve essere fiducioso sulla risoluzione in tempi brevi, sebbene non brevissimi dei problemi legati alla dimensione esogena dei fattori di offerta, che una volta risolti dall’azione della Casa Bianca non saranno più un problema per la Fed.
Invece, la ragione principale di Wall Street è in ultima analisi, secondo me, che la speculazione sul tasso di interesse di medio e lungo periodo non solo a livello di Stati Uniti, ma dell’intero pianeta terra sia compito essenziale e fondamentale della stessa borsa americana, in quanto in tale stima il Dow Jones incorpora lo esistente e il progettabile, transizione green e via dicendo.
Insomma, Wall Street ha in gestione il Sacro Graal dell’informazione finanziaria ed economica per l’intero pianeta terra, e da tale punto di vista chi si vorrebbe arroccare a difendere posizioni contrarie sosterebbe solo il falso sapendo di mentire; ulteriore corollario di tale impostazione è che la Fed sia di fatto solamente un braccio operativo e di controllo della liquidità per gli scopi di Wall Street rimanendo in tal fatta in qualche modo subordinata, la Fed, a Wall Street.
Il solo centro di potere e di direzione resta pertanto nemmeno la Casa Bianca, ma solamente il Congresso americano: l’istituzione delle istituzioni degli Stati Uniti, il luogo più sacro.
Se diamo fede alle ipotesi e alle congetture da me evidenziate, quello che ha esternato la Fed mercoledì 15 dicembre è il massimo per ora dei percorsi fattibili, non ha cioè il potere e la autorevolezza necessarie per contrastare sul serio e in modo profondo Casa Bianca e Wall Street.
Ciò potrebbe accadere se e solamente se il Congresso le desse un appoggio sostanziale condiviso e esplicitato; ma non mi sembra questo il quadro odierno delle dinamiche interne agli Stati Uniti. Ritorniamo perciò a uno dei miti fondativi del correggere l’inflazione e contrastarla senza creare effetti di ritorno più letali della cura, ritorniamo a parlare cioè dello spettro del 1929, la caduta.
In termini numerici abbiamo che per aversi un novello 1929 oggigiorno, dai 36.000 circa del Dow Jones attuali toccherebbe precipitare in un mese a 12.000 punti; in effetti, si vede subito dai valori testé presentati quale bomba atomica sia stata al caduta del 1929.
Obiettivamente, però, un dato certo e sicuro rispetto al Pil attuale degli Stati Uniti sarebbe pari a 27.000-28.000 punti, quindi è come se ci fosse una rendita di posizione degli operatori finanziari e istituzionali che non si vuole abbandonare; io mi sono fatto l’idea che la considerino questa “schiuma in più”, parole di Powell, come un’assicurazione per tempi più brutti se dovessero manifestarsi.
Nel frattempo, in perfetto stile americano, chi maggiormente porta lustro e futuro alla nazione deve essere rassicurato e non vessato; quindi il costo dell’inflazione, quello che sta mostrando Wall Street, è che la devono pagare altri soggetti, possibilmente e in modo augurale fuori dagli Stati Uniti. Questa è una delle facce del potere.
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