Dopo il dato sull’inflazione americana di maggio, uscito sotto le attese, il mercato ieri si era portato avanti scommettendo su due tagli dei tassi della Fed prima della fine dell’anno. La banca centrale americana, invece, dopo la riunione di ieri ha indicato di aspettarsi solo un taglio e ha definito il progresso verso l’obiettivo di inflazione al 2% come “modesto”.



La decisione di tenere i tassi invariati, ampiamente attesa, è stata confermata. L’inflazione è scesa a maggio al 3,3% rispetto al 3,4% di aprile e rispetto ad attese che si attestavano sullo stesso livello del mese precedente. Il dato è stato influenzato dal calo del 9,3% dei prezzi delle auto usate e dello 0,8% di quelle nuove; è una tipologia di acquisti molto meno frequente di altre voci. I costi per l’abitazione, invece, salgono del 5,4%, quelli per i trasporti del 10,5%. Il rallentamento è incoraggiante e infatti il mercato, a prescindere dalle attese dei membri della Fed, a valle della decisione scontava una probabilità di due tagli entro la fine dell’anno più alta di quella di martedì.



Ci sono due modi però di guardare agli ultimi sviluppi sull’inflazione. Il primo si concentra sul rallentamento, molto graduale, rispetto ai picchi del 2022; il secondo registra il trentottesimo mese consecutivo con un’inflazione superiore al 3%. L’inflazione cumulata ha eroso il potere d’acquisto di ampi strati della popolazione; alcuni settori, come l’immobiliare, e alcune voci di costo, come gli alimentari, hanno accumulato rincari dolorosi. Con un deficit fiscale al 7%, due candidati alle presidenziali americane che non mostrano alcuna intenzione di ridurre le spese e il contesto geopolitico attuale i rischi, a meno di una recessione, nel medio periodo sono al rialzo. Le stime della Federal reserve sui tassi di interesse di medio periodo sono salite dal 2,6% di marzo al 2,8%. Sembra la conferma di un cambiamento di scenario e di un ciclo di espansione monetaria diverso da quelli visti negli ultimi tre decenni: meno profondo e meno duraturo.



Martedì il principale quotidiano finanziario americano, il Wall Street Journal, pubblicava un editoriale di “denuncia” sulle politiche fiscali di Biden: il condono dei debiti per lo studio, per le cure mediche, le modifiche ai criteri per il calcolo del merito di credito dei consumatori che escludono alcuni insoluti. A prescindere dalle opinioni in merito, quello che emerge è la consapevolezza, sempre più diffusa, dell’insostenibilità delle politiche fiscali americane. Ne discutono gli ad dei principali gruppi finanziari, ne parlano gli investitori più stimati, se ne occupa la stampa specializzata che parla a un pubblico di osservatori della borsa molto più ampio, in proporzione, di quello europeo. Gli Stati Uniti, tuttavia, sono in grado di sostenere certi deficit e certi tassi di interesse molto più di chiunque altro tra i Paesi occidentali e questo non è affatto un dettaglio. Gli Stati Uniti non hanno una guerra ai propri confini, sono seduti sulla valuta di riserva globale e hanno risorse naturali, inclusi gas e petrolio, sterminati rispetto a ogni altro Paese europeo o a ogni alleato asiatico. Qualsiasi fase di volatilità finanziaria che coinvolga, per esempio, le obbligazioni statali drena risorse dalla periferia e le convoglia verso il centro.

La resa dei conti sulla bolla delle obbligazioni statali è inevitabile, ma quello che accade nel frattempo è decisivo. Essere l’ultimo Paese o il primo a dover mettere mano alla questione fa tutta la differenza del mondo; i risparmi, migrano, dal primo Paese all’ultimo dando a questo un vantaggio enorme. L’ultima banca centrale ad abbassare i tassi sarà la Fed, dopo tutti gli altri, nonostante il deficit fuori controllo.

 

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