Ieri sera la Federal Reserve ha alzato i tassi di 25 punti base portandoli in una banda compresa tra il 5% e il 5,25%, ai livelli più alti degli ultimi 16 anni. Il rialzo ha rispettato le attese, ma i principali indici azionari hanno virato al ribasso e chiuso in rosso. La banca centrale ha concesso, a chi esprimeva preoccupazioni sul ciclo economico e sulle tensioni bancarie, solamente un accenno a una pausa dei rialzi togliendo dal comunicato stampa, rispetto a quello di marzo, la frase “ulteriori incrementi potrebbero essere appropriati”. In compenso la decisione è stata unanime; nessun membro della Fed ha espresso dubbi sul decimo rialzo dei tassi consecutivo. Inoltre, Powell, nel corso della conferenza stampa, ha detto di non essere “troppo lontano” da condizioni sufficientemente restrittive specificando poi che “l’inflazione sta scendendo verso il target lentamente” e che “se il ritmo non cambia non taglieremo i tassi”. L’inflazione “core”, al netto delle componenti più volatili, rimane al 5% rispetto a un obiettivo del 2%. La strada per raggiungere il target è lunga.
Le probabilità di un ulteriore rialzo a giugno, dopo la conferenza stampa, seppur limitate sono salite: è un movimento che sintetizza la reazione del mercato che non registra nessun cambio imminente nella politica monetaria della banca centrale americana. Da qui in avanti la Fed è “data dependent” (dipendente dai dati); nelle prossime settimane ogni dato sarà attentamente monitorato per analizzare l’evoluzione delle principali grandezze economiche.
Il mercato del lavoro, secondo Powell, rimane “molto stretto” con il tasso di disoccupazione molto basso e una domanda, da parte delle imprese, che “eccede sostanzialmente l’offerta di lavoratori disponibili”. La Federal Reserve non si aspetta alcuna recessione nel breve periodo o, in alternativa, non si attende che l’inflazione si appresti a scendere velocemente. Volendo speculare è possibile che il dato sull’inflazione di aprile, in uscita il 10 maggio, sorprenda, come in Europa, al rialzo oppure la scommessa di Powell è che le dinamiche che hanno spinto la crescita ben oltre e più a lungo di quanto fosse lecito attendersi continuino: eccesso di risparmi, mercato del lavoro stretto, ristrutturazione delle catene di fornitura e, infine, politiche fiscali espansive.
La crisi delle banche regionali americane, prima della decisione di ieri, era l’indiziata numero uno per un’inversione della politica monetaria nel breve periodo. La posizione ufficiale, espressa ieri dal Presidente della Fed, è che il sistema bancario americano sia “solido e resiliente” e che “le condizioni del sistema bancario siano migliorate”.
Ufficialmente da ieri la Fed è entrata in una fase “attendista”; non ci sono più aumenti programmati e nemmeno sono stati prefigurati tagli. Le principali variabili che occorrerà monitorare nelle prossime settimane sono tre. La prima, come detto, è l’andamento dei dati sull’inflazione. Qualsiasi sorpresa al rialzo, soprattutto senza alcun segnale di rallentamento della crescita, prenderebbe gli investitori in contropiede. La seconda è l’andamento della crescita su cui però almeno per i prossimi due/tre mesi sembra essersi consolidata una previsione di rallentamento senza crisi. La terza sono gli stress finanziari che nelle ultime settimane hanno preso la forma delle crisi bancarie. Il primo appuntamento, l’inflazione americana di aprile, è tra una settimana.
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