La Fed ieri sera, come da attese, ha tagliato i tassi di 25 punti base; il taglio era dato sostanzialmente per certo e qualsiasi sorpresa sarebbe stata interpretata in senso politico a meno di due giorni dalle elezioni presidenziali. Rimane sul tavolo, dopo la decisione di ieri, un ulteriore taglio a dicembre.

Ci sono due elementi che devono essere sottolineati a valle della riunione di ieri. Il primo è la scomparsa dalle righe del comunicato di alcune parole che invece erano incluse in quello della riunione precedente; la Fed ha deciso di eliminare la frase con cui si esprimeva “crescente fiducia che l’inflazione si stesse muovendo verso il 2%”. Il mercato, dopo aver accantonato il tema, tornerà a concentrarsi sui dati dell’inflazione sulla cui discesa la Fed evidentemente non è più così sicura. Il secondo elemento è che Powell, commentando i recenti rialzi dei rendimenti delle obbligazioni americane, ha spiegato che questo andamento non è tanto dovuto ad “aspettative di inflazione più alta” quanto alla probabilità di una “maggiore crescita”.



Emerge quindi uno scenario in cui l’inflazione americana potrebbe ripartire in un contesto di crescita robusta; che questo andamento sia o meno l’effetto anche di politiche fiscali espansive non è decisivo nel breve e medio termine. Gli Stati Uniti si possono permettere di fare più deficit degli altri perché hanno la valuta di riserva, perché hanno la bolletta energetica sotto controllo e perché diventano l’approdo di capitali alla ricerca di crescita industriale e dei consumi. L’America e la sua economia si possono permettere tassi più alti di quelli europei perché la Bce, di fronte alla desolazione dell’industria europea, fa molta più fatica a interrompere il percorso di discesa dei tassi.



Si può guardare a questo fenomeno come si è sempre fatto e quindi decidere che, tutto sommato, questa divaricazione delle politiche monetarie non sia negativa perché l’indebolimento dell’euro aiuta le esportazioni europee e l’economia dell’Unione. Il problema di questa visione è che per la prima volta da molto tempo l’America trova un sentiero per la crescita che l’Europa invece ha perso. Questa divaricazione delle politiche monetarie non è una fase momentanea in attesa che l’economia europea riprenda il suo corso, dopo un’interruzione, e si rimetta in scia a Washington. L’industria europea, invece, è colpita strutturalmente dalla fine delle importazioni di gas russo, dalle guerre commerciali e dalle crisi in Medio Oriente che la tagliano fuori fisicamente dai commerci globali.



La transizione green non funziona perché la tecnologia che permetterebbe di immagazzinare l’energia rinnovabile in eccesso non è economicamente sostenibile. O l’Europa abbandona il green e si rimette a estrarre gas alla velocità della luce oppure può solo aspettare pazientemente, almeno un decennio, che i programmi nucleari che oggi sono in fase embrionale arrivino a compimento; è un lasso di tempo troppo lungo e incompatibile con la sopravvivenza dell’industria europea.

Il rischio per l’Europa è che mentre la divaricazione delle politiche monetarie si prolunga indefinitamente si assista a una fuga di capitali verso l’America che metterebbe il continente in una situazione molto pericolosa; si metterebbe a rischio il buon nome dell’euro, svalutatissimo, producendo dentro l’Europa l’inflazione peggiore di tutte e cioè quella importata. Di fronte a questo scenario chi può, Germania in primis, potrebbe anche decidere di abbandonare la nave.

Questa non è fantascienza perché dentro le pieghe dei mercati si registrano già ora movimenti che indicano un appetito per il dollaro dentro l’Europa che non si vedeva da una generazione. La sopravvivenza dell’Europa è legata a quella della sua industria e questa, a sua volta, non può prescindere da una bolletta energetica competitiva e da una situazione geopolitica in Medio Oriente favorevole. L’America va per la sua strada e se l’Europa arranca peggio per lei.

In un mondo normale questa sarebbe l’occasione per un bagno di realismo. Speriamo.

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