Come da attese ieri la Fed ha lasciato invariati i tassi nell’intervallo compreso tra il 5,25% e il 5,5%. Per la banca centrale non è appropriato ridurre l’intervallo fino a che non ci sia una maggiore sicurezza che “l’inflazione si stia muovendo verso il 2% in modo sostenibile”. Dopo la decisione della Fed e la pubblicazione del comunicato le probabilità di un taglio a marzo sono leggermente scese. La crescita economica negli Stati Uniti ha sorpreso al rialzo e l’ultimo dato sul Pil ha consegnato la maggiore sorpresa positiva, rispetto alle attese, dal 2019, il tasso di disoccupazione rimane ai minimi, i mercati azionari viaggiano a gonfie vele, l’eccesso di risparmio, calcolato dalle principali banche d’affari, è ancora nell’ordine delle centinaia di miliardi di dollari. La scommessa fatta dal mercato questo autunno su una virata delle banche centrali nel 2024 ha prodotto gli stessi effetti che si sarebbero materializzati con tagli veri. Infine, nonostante un’economia che è tutto fuorché in recessione, il deficit pubblico americano rimane fuori scala e la politica fiscale più che accomodante.
Sotto la superficie, si è visto ieri con il crollo delle azioni della banca regionale “New York Community Bancorp”, ci sono elementi di stress perché il sistema è abituato a tassi reali minimi da più di dieci anni. La questione al fondo però non cambia; in queste condizioni del mercato del lavoro, con un tale eccesso di risparmio e con il miglioramento delle condizioni finanziarie degli ultimi mesi, se la Fed tagliasse troppo e troppo in fretta renderebbe molto probabile una seconda ondata inflattiva. Dopo aver sbagliato a prevedere la prima l’approccio, comprensibilmente, rimane prudente. Per giustificare tagli dei tassi più aggressivi bisognerebbe, come minimo, osservare un peggioramento del mercato del lavoro che per ora non si vede. Un’inversione dei mercati azionari, che in alcuni settori viaggiano a valutazioni stratosferiche, produrrebbe effetti negativi sul mercato del lavoro. Non si può escludere, ma per ora non è questo lo scenario e non sembra nemmeno che la Fed voglia riportare i mercati azionari su valutazioni più sobrie soprattutto in alcuni settori. Prevedere una recessione o un crollo, prima o poi, non è il mestiere degli investitori che si limitano a quello che ragionevolmente potrebbe accadere nei prossimi tre o sei mesi.
La Federal Reserve per ora ha margini per tenere insieme il contenimento dell’inflazione, le prospettive di crescita e i mercati finanziari, in cui il settore azionario che rimane vicino ai massimi. Il possibile punto di caduta, ha ricordato ancora l’ad di Jp Morgan Dimon tre giorni fa, è una “ribellione dei mercati” contro il debito americano. La ribellione dei mercati, di cui parla Dimon, potrebbe prendere le mosse dalla presa di coscienza che gli Stati Uniti non hanno intenzione di riportare il deficit entro valori normali. Se il deficit su Pil americano rimane a questi livelli con il mercato del lavoro in condizioni eccezionalmente positive è lecito chiedersi dove possa andare in una fase di rallentamento.
Questi avvertimenti sono importanti non solo per i mercati. La prossima presidenza americana si potrebbe trovare in una situazione simile a quella di alcuni Governi europei costretti a scendere ai patti con i mercati e a dover calibrare le proprie politiche, non solo quelle strettamente economiche, per evitare fasi di volatilità. Lo scenario geopolitico rimane molto complicato, ma la Fed non può prendere decisioni sulla base di eventi che potrebbero non accadere mai o accadere in tempi impossibili da stimare. C’è spazio perché i mercati realizzino lo spostamento in avanti del primo taglio; il ritardo è un “lusso” che la Fed si può permettere.
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