La Fed ieri ha deciso, come ampiamente atteso, di tenere invariati i tassi nella banda compresa tra 5,25% e 5,5%. La banca centrale americana, prima di luglio dell’anno scorso, ha alzato i tassi in undici riunioni su dodici nel tentativo di fermare l’inflazione salita ai massimi degli ultimi 40 anni. Da luglio 2023, con l’ultimo taglio, i tassi sono rimasti invariati nella convinzione che fosse stato fatto abbastanza per riportare gradualmente l’inflazione al 2%.<
Ieri il Presidente Powell ha dichiarato che “è probabile che ci occorrerà più tempo per avere fiducia di essere su un sentiero sostenibile vero un’inflazione del 2%”; per ora quindi i tagli dei tassi sono rimandati. Più che una sorpresa questa è la conferma di quello che gli investitori avevano già anticipato. A inizio gennaio il mercato scontava sei tagli dei tassi per il 2024; ieri, prima della riunione della Fed, le attese indicavano uno o due tagli al massimo. In questi mesi è emerso uno scenario diverso da quello che si era immaginato cinque mesi fa; le condizioni economiche si sono dimostrate migliori delle attese e si è fermato il rallentamento dell’inflazione. Gli ultimi dati, in realtà, danno conto di un’accelerazione e ancora ieri l’indice sulle attese dei prezzi delle imprese americane di aprile sorprendeva al rialzo e segnava un incremento rispetto a marzo.
Nelle ultime settimane si è persino presa in considerazione l’ipotesi che la prossima mossa della Fed sarebbe stata un rialzo dei tassi. Settimana scorsa anche il Financial Times ha dato conto della probabilità crescente di questa eventualità. Ieri Powell ha però smentito l’ipotesi. L’altra novità è che il processo di riduzione del bilancio della Fed sarà più lento del previsto. Ciò è bastato perché i mercati interpretassero la riunione di ieri in senso “espansivo”.
L’andamento economico attuale, sicuramente in America, non è coerente con una riduzione dell’inflazione; è anzi possibile assistere a un’accelerazione nel breve. Se i dati delle prossime settimane dovessero confermare questo quadro diventerebbe inevitabile chiedersi se la Fed abbia rinunciato a riportare l’inflazione al 2% oppure se all’orizzonte, tra uno o due trimestri, veda un peggioramento dell’economia tale da rendere inutile qualsiasi preoccupazione sui prezzi. L’inflazione si “risolverebbe” da sola grazie a un rallentamento economico che potrebbe fare comodo sia alla banca centrale, sia a Washington oggi alle prese con l’aumento del costo del debito pubblico.
L’errore di politica monetaria delle banche centrali, nella seconda metà del 2021, quando si è aspettato ad alzare i tassi scommettendo sulla transitorietà dell’inflazione e poi, ancora, a fine 2023 anticipando la fine dell’inflazione, non sono stati neutrali per gli investitori e per i mercati che hanno messo a segno rialzi da record. Oggi le questioni più urgenti sono altre. Se l’unica medicina dell’inflazione è una recessione che arriva dopo quattro anni di spesa pubblica fuori scala è lecito chiedersi dove possano andare i deficit nella prossima fase di rallentamento. Se la recessione dovesse arrivare con l’andamento dei prezzi ancora stabilmente sopra il 2% è inevitabile domandarsi dove possa andare l’inflazione con il taglio dei tassi e quali squilibri sociali possa produrre. Infine, ed è forse il punto centrale, si pone il problema di quali tassi sulle obbligazioni statali si accontenteranno fondi di investimento e risparmiatori in questo nuovo quadro.
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