La Federal Reserve, nella riunione di ieri, ha mantenuto i tassi invariati come da attese lasciandoli nell’intervallo 5,25%-5,50% che resiste da luglio 2023. A dominare la giornata è stato il cambio netto sulle aspettative dei tassi dei membri del board della banca centrale americana. Solo a settembre la Fed si aspettava un altro rialzo nel 2023, due tagli nel 2024 e cinque tagli nel 2025, mentre da ieri si attendono tre tagli già nel 2024 e quattro nel 2025 e ovviamente nessun rialzo per l’anno in corso.
Gli investitori nelle ultime settimane avevano giocato d’anticipo scommettendo su un’inversione della Fed nonostante l’economia, pur in rallentamento, non sia ancora in recessione e nonostante un’inflazione core ancora molto superiore al target del 2%. Il rialzo dei mercati azionari nell’intervallo tra i due meeting della Fed, quello di settembre e quello di ieri, è stato il maggiore dall’intervallo tra i meeting di giugno e agosto 2009; allora il mercato stava ancora recuperando dal crollo arrivato con il fallimento di Lehman Brothers.
L’esuberanza dei mercati delle ultime settimane e il crollo dei rendimenti delle obbligazioni si erano spinti talmente in avanti da far ipotizzare un intervento contrario della Fed che fermasse la “speculazione”. Di questo invece non c’è stata traccia e ai mercati è stato anzi servita la conferma della propria scommessa al rialzo. È la scommessa su un rallentamento limitato e un cambio netto della Fed su cui si possono innestare mesi di performance finanziare positive.
Siamo in una fase particolare perché, a meno di una recessione severa, il rischio è che l’esuberanza delle borse e il crollo dei tassi faccia ripartire l’inflazione nei primi mesi del 2024, appena la base di paragone favorevole viene meno. Fino a quando non sono arrivati gli incrementi salariali l’inflazione è stata il principale tema della discussione politica e la principale causa del calo della popolarità dei leader politici.
Il principale indice azionario americano ieri ha chiuso in netto rialzo e si sono distinti, come da qualche settimana, proprio i settori che più avevano sofferto i rialzi. Si è indebolito il dollaro e sono salite le materie prime. Sugli indici azionari, inclusi quelli europei, non c’è traccia di recessione.
Se vogliamo credere alle parole della Fed che rimane “attenta ai rischi di inflazione” dobbiamo chiederci come risolvere la contraddizione con i rischi che l’esuberanza dei mercati, non solo quelle che coinvolgono i prezzi delle materie prime, comportano per i prezzi. Una prima ipotesi è che siamo alla vigilia di una recessione netta che si porta dietro anche il crollo dei prezzi. La Fed che oggi si attende per il 2024 un’inflazione più bassa rispetto alle attese di settembre è la stessa che due anni fa ha scambiato per transitoria una fase inflattiva durata per due anni e che, per dimensione, non si vedeva da quattro decenni.
Una seconda ipotesi è che la Fed si sia assicurata, come da tradizione, la calma sui mercati per l’anno elettorale che arriva in una fase, oltretutto, in cui l’Amministrazione Biden e gli Stati Uniti sono impegnati militarmente su due fronti: il sostegno all’Ucraina e quello a Israele. L’orizzonte è la campagna elettorale dell’anno prossimo e, forse, l’esigenza di scongiurare qualsiasi tensione finanziaria interna in un contesto geopolitico sfidante. In questo caso il conto arriverà quando la fase elettorale sarà già chiusa e comunque molto più in là dell’orizzonte attuale degli investitori. Ai fini di quello che accadrà nei prossimi due trimestri queste riflessioni rischiano di non avere rilevanza borsistica.
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