La storia non è solo archeologia. Presa sul serio, aiuta a rendere più acuto lo sguardo sul nostro presente. Mette in guardia contro il rischio dello schematismo, e soprattutto ci educa a riconoscere le sfumature infinite della diversità, a far emergere le linee di forza dei grandi processi di trasformazione sotto il mantello delle continuità che ci legano al passato da cui deriviamo.
Di queste trasformazioni è poi decisivo cogliere il senso di marcia, insieme agli effetti che producono, sia come perdita e distruzione, sia come guadagno di nuovi orizzonti: una cosa e l’altra insieme, senza scissioni, se non si vuole rinchiudersi in una prospettiva unilaterale.
Partendo da questa premessa, mi sembra utile tornare a riflettere su una questione affrontata sulle pagine del Sussidiario in questi ultimi giorni: l’ipotesi di un’analogia tra la situazione verso cui si trova spinta la coscienza cristiana nella cornice dell’Occidente secolarizzato della più avanzata modernità e le circostanze storiche del suo primo affacciarsi sulla scena del mondo antico, egemonizzato dal pluralismo politeistico dell’imperialismo romano e dalle pretese di totalità del suo ordine politico-legislativo. Mi sembra che si tratti di due condizioni di marginalità radicalmente differenziate, che non è giusto sovrapporre tra loro.
Nel primo caso, quello della secolarizzazione odierna, si tratta dell’esito di un processo (plurisecolare) di sostanziale estromissione dalla sfera della convivenza civile delle identità religiose (di tutte le identità, non solo quella cristiana), sempre più relegate nel recinto della gestione dei rapporti con il mondo del sacro. Ma è importante non trascurare che questa marginalizzazione, perseguita anche deliberatamente a livello ideologico, come programma di un’azione tesa a comprimere su fasce periferiche o a sopprimere, di fatto, il peso di verità di ogni proclamazione di fede, è cominciata (e si sta tuttora producendo) all’interno di un contesto di civiltà costruito poggiando su fondamenta solo in un secondo tempo dimenticate e rimosse.
La secolarizzazione moderna è anche un processo di autodemolizione, che rinnega gli apporti positivi venuti da tradizioni culturali, forme di pensiero e pratiche di vita che erano state precedentemente metabolizzate, incorporate nell’ossatura di un sistema del vivere condiviso, e, in quanto tali, diventate fattore decisivo di modellamento della stessa modernità che ci ha condotti al punto in cui ora ci troviamo. In questo senso, la secolarizzazione nasconde in sé un’anima di ostilità conflittuale, che non va edulcorata immaginando che invece si abbia a che fare unicamente con un processo di purificazione delle forme di espressione delle soggettività religiose, di riconversione del loro modo di proporsi all’autenticità di una antica sorgente primigenia.
Ben diversa era la situazione di marginalità forzata dentro la quale si è trovata a compaginarsi la coscienza cristiana delle origini. Qui non si trattava di difendere le ragioni di una ricchezza contestata da chi non ne riconosceva più i valori dopo essersene appropriato, bensì di crearsi uno spazio di libertà dentro un universo certamente inclusivo nei confronti di ogni novità, ma che non tollerava la pretesa alternativa di globalità avanzata da una religione tutt’altro che riducibile a un semplice culto orientale, desideroso solo di inserirsi senza strepiti nel “mercato” superaffollato del paganesimo greco e latino.
Il problema era cominciare a radicarsi in un cosmo umano che, fin dall’inizio, non poté addomesticare e piegare a sé l’originalità cristiana. Il contrasto antagonista si intrecciava con l’esigenza dell’espansione missionaria, e in questo campo di tensione dialettica i maestri della fede dei primi secoli hanno edificato le basi della dottrina condensata nelle strutture portanti della liturgia e negli articoli dogmatici proclamati dai concili dell’età patristica.
In mezzo tra i due poli degli inizi cristiani nel mondo tardoantico e la fase successiva alla dissoluzione della cristianità medievale e di antico regime si è dipanato un grandioso cammino di sviluppo della cultura sostenuta dalla prospettiva religiosa incardinata sulla fusione dei due Testamenti. La fede ha generato un sistema di pensiero, uno sguardo onnicomprensivo sulla dignità dell’uomo nel suo fondamento ontologico, sulla vastità e sulle giuste implicazioni positive della sua carica di bisogno, sulla strutturazione ordinata degli affetti e delle relazioni sociali, sulla realtà della famiglia, del lavoro, sulla conoscenza del mondo, sul governo politico del consorzio umano. Tutto questo enorme patrimonio di elaborazione delle idee, di capacità di progetto, di orientamento delle esperienze vissute, di costruzione del bene comune, è un tesoro acquisito, che sta alle nostre spalle. Ma non è un relitto da museo: è una risorsa che può continuare a essere vitale, un faro di orientamento che ci può guidare anche nel tentativo di rispondere alle domande inedite imposte dal cambiamento d’epoca in cui ci ritroviamo immersi.
È più che legittimo dubitare che si riesca a costruire un futuro di ripresa e vero progresso, accogliente e fin che si può equilibrato, rinunciando ad arrampicarsi “come nani sulle spalle dei giganti” che, prima di noi, hanno svelato la capacità insita nel fatto cristiano di fondare un umanesimo più affidabile e integrale di quello plasmato sulle linee dell’onnipotenza dei diritti e delle libertà dell’individuo autonomo.
I profeti del rinnovamento cristiano che ha attraversato la Chiesa nell’ultimo secolo, culminando nel magistero di papi di eccezionale levatura che l’hanno guidata dal vertice centrale, hanno indicato nella verticale profondità del radicamento sull’essenziale l’ancoraggio su cui fare leva per il risveglio della fede nel quadro di una modernità che ha spazzato via molti dei supporti tradizionali del senso religioso. L’accento si è spostato sulla fede come incontro vivo, come immersione nello spazio di un evento che trasforma e salva la vita intera dell’uomo.
Si è insistito sempre di più (ma non era affatto invenzione rivoluzionaria) sulla forza dell’attrattiva suscitata dalla carica carismatica della testimonianza, da persona a persona, più che sulla difesa a oltranza di schemi normativi e scheletri istituzionali prefabbricati. Ma le strade dell’autoriforma indicate, fra tanti altri, da de Lubac, da von Balthasar o da Ratzinger, si dispongono risolutamente anche in senso orizzontale, riproducendo esattamente la forma archetipa della croce di Cristo: incitano, insieme alla verticalità, alla riscoperta della dimensione totalmente aperta, cosmica e globale, della salvezza prodotta dalla Redenzione. La salvezza è per tutti gli uomini, per la ricostruzione della vita umana a partire dalle sue basi più fisiche e materiali. La grazia che si comunica ricrea il mondo innervandosi dal suo cuore più nascosto, secondo le molteplici traiettorie che si diramano dal suo centro. Ed è proprio in questo senso (la totalità organica dell’incarnazione e della redenzione di Cristo) che soprattutto de Lubac ha militato a favore della riscoperta della vocazione strutturalmente “cattolica”, cioè universale, proiettata verso l’abbraccio dell’umanità nel suo insieme, del germe di vita nuova identificabile nel “piccolo gregge” della communio stretta intorno alla potenza del Signore risorto.
Respirare a pieni polmoni nello slancio dell’apertura incondizionata al mondo, fuori dai “bastioni” delle cittadelle del sacro, non può più voler dire, nel contesto delle divaricazioni create dall’Occidente secolarizzato, immaginare che l’ordine normativo cristiano possa fagocitare, riassumendola in sé, la babele dei linguaggi con cui la modernità più estremizzata cerca di determinare la sua strada di indipendenza, non priva di tratti anche insidiosamente diabolici. Il mondo non è mai stato completamente cristianizzato, e tanto meno può esserlo nella frantumazione culturale del nostro oggi. La Chiesa non è un principio di governo della realtà politica, che la scavalca. La teologia e la fede non sono un affare politico. È stato un gran bene recuperare il senso della distanza critica tra i due ordini.
Ma la Chiesa non sta fuori dal mondo, i suoi fedeli ne sono cittadini come tutti gli altri e interagiscono con le “potenze” che dettano legge all’interno di esso. A ogni soggetto cristiano, che è un soggetto unitario nella sua intima costituzione, rimane il compito irrinunciabile di portare l’originalità del suo punto di vista nel confronto culturale, anche aspro e non necessariamente riconducibile a unità, con cui si configura la pubblica opinione e si fissano gli orientamenti che poi tendono a tradursi in costume di legge obbligante.
Così come i fedeli cristiani, alla pari di ogni altro cittadino responsabile, agendo alla luce dei principi di vita nuova che hanno assimilato nello spazio dell’esperienza religiosa, possono più che legittimamente continuare a inserirsi nei meccanismi di selezione e nelle strutture organizzative del governo politico della società moderna per concorrere, in dialettica con tutti gli altri soggetti e tutte le altre identità culturali che la compongono, alla gestione del destino collettivo della comunità: “il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è invece proprio dei fedeli laici. Come cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica. Non possono pertanto abdicare” (Benedetto XVI, Deus charitas est, 29).
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