La rivoluzione dell’annuncio cristiano si è proposta fin dai suoi inizi come una radicale riconversione dell’Antica alleanza, di cui pure ha ereditato i libri sacri e alcuni elementi fondamentali entrati a comporre la nuova visione religiosa. Le linee di rottura si sono intrecciate al rifiuto dell’integralismo politico sacralizzato del monoteismo ebraico maturo, che aveva fatto della fede nel Dio unico il cemento di una unità sociale destinata a occupare il suo spazio inviolabile nella galassia fluttuante del mondo semitico, in alternativa a tutte le altre presenze con cui entrava in competizione.



Il Creatore dell’universo e Signore della storia umana assumeva le vesti di un Dio geloso che reclamava una fedeltà senza riserve, nel solco di una Legge chiamata non solo a regolare i rapporti dell’individuo con il soprannaturale, ma a scandire il tempo umano, a modellare le relazioni con le persone e con i beni materiali, a fissare gli argini di un ordine collettivo in cui le colpe morali sfociavano nel reato giuridico e attivavano sanzioni alle quali non era estraneo un carattere drasticamente punitivo. La solidarietà di destino del popolo eletto si era costruita in un lungo cammino sofferto. Per condurlo fino al suo esito ultimo erano stati necessari il ricorso alla severità del potere, l’uso della violenza fisica e il maneggio delle armi di conquista. Nell’altalena continua dei momentanei trionfi e dei rovesci miserevoli, l’Onnipotente in prima persona non aveva disdegnato di porsi alla testa degli eserciti di Israele e con il suo braccio vigoroso aveva reso possibili insperate vittorie quando tutto sembrava inclinarsi in direzioni completamente diverse.



Invertendo i canoni tradizionali, la rivendicazione della distinzione risoluta tra la sfera del potere mondano e la libera condivisione della fede nel Dio che si è fatto uomo ha spezzato il monismo della religiosità del mondo antico, rendendo possibile l’inizio dello spalancamento in senso universale dei frutti della redenzione. La dilatazione verso una globalità che scavalcava le partizioni frammentarie dei potentati terreni e le chiusure degli orizzonti culturali radicati nei più ristretti ambiti locali implicava un arretramento rispetto alla pretesa di guidare dispoticamente l’esistenza complessiva della società umana a partire dall’autorità suprema di una casta sacerdotale, detentrice del monopolio della mediazione tra la terra e il cielo.



Ma guardando ai modi concreti con cui il principio della tensione irriducibile tra l’orbita di Dio e quella di Cesare è stato tradotto nelle vicende della storia successiva si coglie chiaramente, al di là di ogni valutazione sulla debole coerenza con cui lo si è potuto salvaguardare nei due millenni di cristianità, che la centratura sul primato dello spirituale (sulla conversione dell’io della persona) si è risolta in qualcosa di ben diverso dalla ritirata nella separatezza.

Il germe della vita cristiana si è concepito, al contrario, come una promessa di bene capace di rispondere all’intero spettro delle attese del soggetto umano; quindi, di indicare una strada positiva per tutti, incidendo in modo efficace sullo sviluppo della convivenza che ci lega a chiunque altro. Questa è stata la sorgente di un dinamismo missionario che è diventato fonte di elaborazione della cultura, capacità di progettare forme e strutture per l’esistenza nel contesto sociale, gusto intraprendente nel tentativo di riversare le certezze dell’ideale proclamato in un codice etico orientato a investire la realtà del mondo nelle sue dimensioni più generali. L’astensione dall’ingerenza unilateralmente ecclesiastica nel potere di governo, cioè la critica della tentazione teocratica che ciclicamente si è riaffacciata come conseguenza della pienezza riconosciuta della signoria di Cristo sul creato, ha nutrito il desiderio di unire il gesto autolimitante del “riporre la spada nel fodero” con la coscienza di essere, in senso opposto, un lievito investito del compito di fermentare dall’interno tutto lo spessore di ogni fenomeno umano: dal cerchio più intimo delle pulsioni legate ai fondamenti biologici del nascere e del morire fino all’economia, alla politica, alla costruzione di tecniche e schemi intellettuali per decifrare il mistero dell’essere nelle sue espressioni più alte e decisive.

Il dinamismo creativo che si è sprigionato fin dal primo articolarsi del credo cristiano nell’ecumene del Vecchio Mondo non ha rinunciato ad appropriarsi della primitiva metafora battagliera del “combattimento”. La percezione dell’alterità ontologica tra il principio di vita nuova fecondato dalla Risurrezione di Cristo e la pesantezza di un universo terrestre sottoposto alle potenze negative del male era un dato inestirpabile. Il “primo comandamento” della carità misericordiosa che accoglie l’esperienza universale dell’umano e la riscatta in forza della sua energia rigeneratrice, prima ancora di poter contare su una risposta esplicita di adesione, si è mantenuto in permanente dialettica con il richiamo a non conformarsi alla mentalità dominante nel mondo, al coraggio della testimonianza più ardita e incontenibile, alla “follia” di un attaccamento alla fede in grado di andare oltre ogni compromesso e ogni livellamento della pura “sapienza” animata dalla presunzione di circoscrivere l’intero perimetro dell’esistere e di esaurirne i significati.

Il dualismo del bilanciamento tra le istituzioni di potere immerse nel “secolo” e il barlume del divino che brilla nella coscienza indomabile dell’io credente si è riflesso anche nella visione agonistica (neotestamentaria e in modo esemplare paolina) della relazione tra la “carne” e lo “spirito”, tra il soggetto cristiano che vive nel mondo e lo investe con il suo abbraccio di amore e il corpo organico di un sistema di coesistenza sottoposto alle potenze tenebrose del Nemico che a quel soggetto fa guerra a oltranza.

Anche in Paolo la mitezza della carità che “tutto sopporta” e va incontro al rischio del rifiuto per salvare ogni tu umano a cui si rivolge non ha temuto di incorporare il paradosso del suo apparente contrario – il paradigma della netta contrapposizione di schieramento – per sottolineare l’integrità della forza originale da cui scaturisce e l’irriducibilità della sua potenza di trasformazione: quella di un’onda d’urto che si muove nelle pieghe più segrete della vita del cosmo e non si lascia bloccare da nessuna contestazione ostile, così come da nessun regime di subdolo addomesticamento, da alcuna morbida volontà di ipocrita assimilazione.

La fede può persino osare di paragonarsi a un’armatura di cui rivestirsi: nelle lettere paoline è anche uno “scudo” dietro il quale proteggersi, ci si immagina di poterla combinare con “l’elmo della salvezza” e con la “spada dello Spirito”. Ci si può “cingere i fianchi” con il baluardo della verità e fare del principio della giustizia una “corazza” (Efesini 6, 10-20). Ma la “battaglia” a cui predisporsi non è certamente quella dell’assedio per invertire il corso della storia. Lo “zelo” che l’Apostolo delle genti auspica come “calzatura” da indossare per correre spediti è quello che mira a “propagare il vangelo della pace”, anche dentro le brutture più orrende dei destini collettivi pilotati dagli uomini asserviti alla logica perversa della ribellione distruttiva, allo scopo di resistere vittoriosi ai “dardi infuocati del Maligno” che vorrebbe spazzare via ogni minimo embrione di novità purificata.

Lo spirito di fortezza a cui si viene esortati è la capacità di andare anche decisamente controcorrente, per rimanere sempre fedeli a sé stessi e non disperdere la ricchezza che si porta in dote. È chiamata in causa la cura di una identità che non ha bisogno di implicarsi nella lotta aggressiva di equivoche guerre sante per sconfiggere l’errore del Nemico mortale. Lo pone, invece, di fronte al fatto compiuto, mostrando l’ostinato miracolo di una vita, malgrado tutto, redenta: quella che il mondo come tale sarà sempre inclinato a rifiutare, fino al compimento ultimo di un duello destinato, drammaticamente, a non conoscere requie.

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