Chiesa cattolica e mondo moderno: il binomio evoca in genere l’idea di una contrapposizione frontale. Le tracce di questo dualismo sopravvivono tenaci nell’immaginario collettivo. Dietro una tale rappresentazione schematica si colgono le eredità di un conflitto che ha attraversato la storia dell’Occidente negli ultimi secoli. Da una parte stanno gli apologeti della forza emancipatrice di una svolta che, demolendo l’autorità del dogma, ha logorato l’innesto dell’orbita umana e della realtà materiale nello spazio della dipendenza dal sacro. Sul fronte opposto, i sostenitori del tradizionalismo conservatore criticano il lato eversivo della secolarizzazione, vedendo nell’avanzata della cultura dei diritti e delle libertà dell’individuo un cancro devastante, che ha minato alle radici l’impianto della cristianità.



Poi vi è anche la galassia di un composito partito “devoto”, che vuole proteggere il patrimonio dei valori religiosi in nome dell’attaccamento a una impalcatura di certezze che non sopportano l’assalto dei dubbi e le obiezioni corrosive di un universo sociale ostile. Per difendere la purezza della fede in pericolo, i suoi paladini più intransigenti stanno ripiegati sulla logica del combattimento polemico, adottando le armi di una militanza refrattaria a ogni forma di compromesso con le derive di una crisi generale di civiltà.



Ciò che accomuna tutte queste posizioni, da un lato all’altro della barricata dietro cui ci si schiera, è dare per scontata (e ultimamente insuperabile) la frattura. Ma anche il divorzio che si è creato tra la modernità in ascesa e un mondo cristiano abbarbicato alle sue radici venerate ha una storia alle sue spalle: viene dalle vicende conflittuali di un passato recente, avendo conosciuto uno sviluppo scandito da battaglie e controversie che meritano di essere messe a fuoco se si vuole arrivare a comprenderne il senso e a giudicarle, invece di continuare a rimanerne prigionieri. Un aiuto prezioso in questa direzione viene dall’ultimo lavoro dello storico gesuita nordamericano John W. O’Malley, dedicato al Vaticano I. Il Concilio e la genesi della Chiesa ultramontana (Vita e Pensiero, 2019).



I capitoli iniziali del volume ripercorrono il lungo tragitto attraverso cui si è imposta, ai vertici di governo della Chiesa cattolica, la spaccatura con il mondo moderno. L’accento messo più sul conflitto che sul dinamismo dell’immersione missionaria iniettò nella coscienza religiosa la sindrome dello stato di assedio: di fronte alla minaccia di un’aggressione ai pilastri portanti della religione tradizionale, si ritirarono i ponti di collegamento e ci si richiuse sempre di più a riccio nella cittadella protetta da bastioni immaginati di robustezza granitica. Invece di aprirsi e di includere, si preferì battere sui tasti della demonizzazione antagonista, e l’elaborazione di proposte adeguate alle nuove circostanze finì con il lasciare il posto alla fissazione di codici di pensiero e stili di controllo sociale che guardavano più alla reiterazione di un passato in via di sfaldamento che non alle sfide inedite del presente.

Come è facile intuire, la cesura storica più radicale è quella che coincise con l’avvento di una modernità politico–ideologica spinta a interpretare la sua griglia di valori fondamentali in una prospettiva diventata presto di alternativa senza sconti all’assetto del mondo preesistente. Il passaggio decisivo fu il trionfo della cultura dei lumi, con il suo confluire nella corrente più duramente contestatrice della Rivoluzione francese e successivamente, a seguito del rientro in un ordine pubblico stabilizzato, con le sperimentazioni dell’assolutismo monopolista instaurato dagli Stati burocratizzati dell’Ottocento e del primo Novecento.

Lo spalancamento ai nuovi orizzonti del sistema del vivere che si cercava di sostituire ai modelli dell’Antico Regime aristocratico e confessionale entrò in urto con l’obbedienza ai princìpi di autorità della società cristiana di massa. E l’élite intellettuale delle istituzioni ecclesiastiche si orientò, nel suo complesso, a favore della progressiva rinuncia alle ipotesi, ormai screditate, di convergenza.

Il volume di O’Malley descrive molto bene come questo processo di arroccamento si fuse con l’esaltazione del centralismo “monarchico” del potere papale, all’interno di un corpo ecclesiale concepito come “società perfetta”, autosussistente e in rapporto di antitesi rispetto al mondo secolare laicizzato. Rinserrandosi nei propri ranghi, una Chiesa in dissidio con le linee di evoluzione di una modernità nata, comunque, dalle viscere del mondo cristianizzato scelse di fare leva sul fulcro direttivo superiore per riorganizzarsi come blocco dotato di coesione e capacità di resistenza. Per reagire a tutte le influenze che soffiavano in senso contrario, il ruolo del papato fu enfatizzato fino a farne l’ultimo baluardo contro il complotto strisciante del “liberalismo” e il “progresso” di una “moderna civiltà” marchiata implacabilmente a fuoco nel Sillabo di Pio IX.

De Maistre, con il suo Du pape del 1819, aveva già fornito alle ambizioni di rivincita dell’antimodernismo della Restaurazione uno dei suoi manifesti più incisivi: “Il cristianesimo si fonda completamente sul papa, così che come principio dell’ordine politico–sociale (…) si può stabilire questa concatenazione: (…) non c’è religione europea senza il cristianesimo, non c’è cristianesimo senza cattolicesimo, non c’è cattolicesimo senza il papa, non c’è papa senza la sovranità che gli spetta” (lettera al conte Pierre Louis de Blacas, 1814). Nei decenni successivi, questa visione ecclesiologica fortemente centralistica, insieme ai presupposti politico–ideologici che ne erano il corollario naturale, prese sempre più decisamente piede a tutti i livelli della gerarchia, nell’immaginario religioso e nella circolazione della cultura che passava attraverso l’editoria, gli istituti di formazione, l’azione educativa del mondo cattolico. Nell’onda lunga di questi sviluppi, si posero le premesse che portarono alla convocazione del concilio Vaticano I, sotto lo stretto controllo della curia romana e degli ambienti più vicini al pontefice regnante, che era ancora Pio IX.

I capitoli conclusivi del libro di O’Malley ricostruiscono lo svolgimento dei lavori del concilio, chiusi forzatamente nell’estate del 1870 con la presa di Roma occupata dalle truppe dell’esercito italiano. Ritiratosi il papa nei palazzi vaticani, il concilio rimase sospeso e non fu più riunito. Nel frattempo, si era potuto approvare le costituzioni dogmatiche Dei filius, sulla conoscibilità della fede e i suoi rapporti con la ragione umana, e Pastor aeternus, rivolta alla ridefinizione del primato pontificio e del suo valore di cardine della struttura unitaria della Chiesa.

L’iter che portò alla promulgazione del secondo documento fu quanto mai travagliato, accendendo la dialettica con una minoranza che alla fine rimase sonoramente sconfitta. Il suo punto più delicato era il capitolo quarto, che prese il titolo: “Del magistero infallibile del romano pontefice”. L’esplicitazione del valore di verità vincolante da attribuire ai pronunciamenti solenni dell’autorità suprema della Chiesa costrinse, allora, a comprimere fortemente il senso della comunione e la visione organica di un pluralismo ecclesiale all’interno del quale il primato petrino vedeva oscurata la sua natura di carisma di servizio, in funzione del coordinamento del corpo organico dei fedeli in Cristo. Molti teologi, vescovi e cardinali si opposero, senza successo, a un irrigidimento unilaterale dell’infallibilità pontificia, che rischiava di apparire innalzata a una sorta di proprietà separata, personale e “assoluta”, del papa inteso come individuo fisico.

Ebbero la meglio i prelati intransigenti e i teologi di punta della Compagnia di Gesù. Nelle loro tesi si riconosceva pienamente il pontefice, che in un’accesa discussione con un esponente del fronte moderato, il cardinale domenicano Filippo Maria Guidi, lo avrebbe impietosamente redarguito senza mezzi termini: “Io, io sono la tradizione! Io, io sono la Chiesa”. Ma Guidi si difese confessando di essersi sentito semplicemente in dovere di seguire la propria coscienza, nonché l’insegnamento di san Tommaso e di Bellarmino.