In un precedente articolo avevo commentato il documento finale di un congresso presieduto dal Patriarca Kirill di Mosca, che esprimeva in modo netto la concezione di una parte, credo non irrilevante, dell’ortodossia russa sul “Mandato” (titolo del documento) che la Russia ha nel mondo. Un mondo ormai diventato satanico e a cui si è arreso l’Occidente, ma contro il quale deve combattere il “mondo russo”, il “Ruskij mir”, che significa anche “pace russa”. Una pace da ottenere anche con la “Guerra Santa”, iniziata con la guerra in Ucraina, diretta a riportare all’unità russa, alla “Santa Madre Russia”, tutta la diaspora degli slavi orientali.
Questa concezione ha segnato gli ultimi secoli della storia russa, utilizzata ampiamente dai poteri autocratici che l’hanno dominata, dall’impero zarista all’attuale autocrazia diretta da Vladimir Putin. Perfino dal regime sovietico, almeno per la mobilitazione e i sacrifici richiesti dalla vittoria nella “Grande Guerra Patriottica”.
È pensabile che essa venga sostenuta anche da una consistente parte del popolo russo, sebbene molti forse comincino a ritenere eccessivo il suo estremismo. Senza dubbio, critiche emergono all’interno della stessa Chiesa ortodossa, come dimostra un altro documento, anche questo apparso su La Nuova Europa. In una recente omelia, il monaco Tichon del Monastero del Salvatore a Vologda richiama i fedeli a non cadere nei “malintesi ideologici che minacciano ora la nostra Chiesa”. Il monaco ne elenca tre come principali.
In primo luogo, Tichon afferma che “per un cristiano il valore supremo e il senso della vita non consistono affatto nella tradizione russa, nei santuari della civiltà russa e neppure nella grande cultura russa. Invece di tutto questo, scegliamo di servire Gesù Cristo Signore e la sua salvezza. Durante l’Ultima cena il Salvatore disse che solo Lui è ‘la via, la verità e la vita’”.
Continua poi dicendo: “Questa via è la via della croce, è il martirio volontario per adempiere i comandamenti di Cristo e non la ‘guerra santa’, non è aggredire un altro popolo e nemmeno prestare giuramento a un’autorità criminale”.
Conclude infine: “Al centro di questa via c’è il pentimento, in greco si dice ‘metanoia’ che significa cambiare modo di pensare. All’origine di questo cambiamento c’è il giudizio su di sé. Questo esclude categoricamente qualsiasi risentimento verso il prossimo, l’Ucraina e ‘l’Occidente globale’”.
Un discorso profondamente e radicalmente cristiano, in netto e coraggioso contrasto con le dichiarazioni di Kirill, che non nega l’identità nazionale russa, ma ne richiama il vero fondamento, rifiutando ogni nazionalismo estremista. Un richiamo a tutti i cristiani, non solo ai russi. Basta ricordare le divisioni profonde create dal nazionalismo ucraino nella Chiesa ortodossa, che ha portato lo scorso anno il Parlamento a votare una legge che prevede il bando della Chiesa russa ortodossa in Ucraina.
Nel precedente articolo ponevo questa concezione della Russia a paragone con il cosiddetto “eccezionalismo americano”. Questa espressione, utilizzata per la prima volta da Alexis de Tocqueville nel 1835 in La democrazia in America, si riferisce alla convinzione di essere investiti della missione di guidare il mondo in base ai propri principi morali, di libertà e democrazia. Un’impostazione che deriva dalle convinzioni religiose dei fondatori, i Padri Pellegrini puritani, di orientamento calvinista.
Come nel caso russo, questa concezione di origine religiosa è stata ampiamente utilizzata dai vari governi che si sono succeduti, seppure oscillando tra posizioni isolazioniste di limitato intervento al di fuori degli Stati Uniti e la tendenza a presentarsi come potenza leader a livello mondiale. Le due Guerre mondiali, in cui gli Stati Uniti sostanzialmente sono stati trascinati, hanno fatto prevalere la seconda tendenza. A Yalta, l’accordo con i sovietici ha portato alla collaborazione tra i due eccezionalismi, uniti contro quello nazista, ma la comune vittoria si è risolta nella contrapposizione bipolare della Guerra fredda.
Il crollo dell’Unione Sovietica è sembrato rendere definitivo quello che è stato definito il “Secolo americano”, con la conseguente “Pax americana” da estendere al di là dell’Europa Occidentale. Peraltro, questa “Pax” è dovuta ricorrere diverse volte alla guerra. L’attacco alle Torri Gemelle ha messo in discussione l’egemonia statunitense. La conseguente ventennale guerra in Afghanistan si è conclusa con una disastrosa ritirata, né hanno avuto un grande successo le guerre all’insegna del regime change e nation building, vedasi Iraq, Siria o Libia. Donald Trump ha cercato di seguire una strategia incentrata su “America First”, con accenni isolazionisti, pur sempre all’insegna del “Make America Great Again”.
Si è quindi passati dal bipolarismo del dopoguerra a un presunto unico “governo” mondiale degli Stati Uniti, per arrivare all’attuale multipolarismo, pur rimanendo gli Stati Uniti la maggior potenza economica, finanziaria e militare. Il frazionamento del potere internazionale ha portato in primo piano la Cina, facilitata in questo suo nuovo ruolo dalla continua contrapposizione di Washington a Mosca, per molti versi incomprensibile. Altri “eccezionalismi” stanno assumendo sempre più importanza, come l’India di Narendra Modi, improntata a un induismo esclusivo a sfondo religioso. Nel tragicamente complesso mondo mediorientale sta sempre più prendendo importanza la Turchia di Erdogan, fondata su una ideologia neo-ottomana.
A rendere più complicato il quadro si aggiunge la situazione interna degli Stati Uniti, con divisioni e contrapposizioni sempre più radicalizzate, con una campagna presidenziale che a volte fa pensare a una repubblica delle banane. Una politica in cui è ormai evidente il condizionamento determinante dei grandi gruppi finanziari. Un esempio è il ruolo giocato dalla finanza ebraica nella questione dell’antisemitismo nelle università americane.
Forse le parole del monaco Tichon dovrebbero essere profondamente meditate non solo a Mosca.
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