La Federal Reserve, come da attese, ha tenuto i tassi fermi per la seconda volta consecutiva mantenendoli in una banda compresa tra il 5,25% e il 5,5%. La lettura del comunicato stampa della banca centrale non fa intravedere alcun cambio di rotta sui tassi e anzi rafforza la prospettiva di alti tassi per una lunga fase, mentre rimane aperta la possibilità di un ulteriore rialzo prima della fine dell’anno. Le prime righe del comunicato non lasciano spazio a dubbi: “i recenti indicatori suggeriscono che l’attività economica si è espansa a un ritmo sostenuto nel terzo trimestre. L’aumento degli occupati si è moderato rispetto all’inizio dell’anno ma rimane forte e il tasso di disoccupazione rimane basso. L’inflazione rimane elevata”.
A seguire, la banca centrale si occupa di due segmenti critici dell’economia che negli ultimi mesi hanno fatto invocare un cambio di rotta dei tassi: “il sistema bancario americano rimane solido. Le condizioni finanziarie e creditizie più sfavorevoli per le famiglie e le imprese peseranno probabilmente sull’attività economica, le assunzioni e l’inflazione. La dimensione di questi effetti rimane incerta. Il comitato rimane estremamente attento ai rischi inflattivi”. Non ci sono quindi problemi di tenuta del sistema bancario e l’aumento dei tassi di interesse, che ovviamente impatta famiglie e imprese, è un fattore di cui non è ancora nota la dimensione e che potrebbe essere comunque retto dal sistema.
L’economia americana nelle ultime settimane non solo non ha rallentato ma è tornata a espandersi, la spesa per consumi rimane forte e l’inflazione core, invece, rimane ben sopra l’obiettivo del 2% e con le dinamiche salariali in atto il rischio è semmai al rialzo. L’incremento medio dei salari è ancora superiore al 5%. In uno scenario di crescita e bassa disoccupazione la priorità della Fed non può che continuare a essere la lotta all’inflazione. Il fatto che il settore immobiliare mostri già da settimane segnali di tensione è un elemento a favore dell’attuale politica monetaria della Fed, perché l’economia nel suo complesso continua a correre.
Concentrarsi sul deficit fuori controllo del governo americano è un esercizio utile per comprendere quello che sta succedendo, ma non sposta i termini della questione. A oggi non si vede né la recessione né il momento in cui la Fed invertirà la politica monetaria cominciando a tagliare i tassi. Gli Stati Uniti si possono permettere l’irresponsabilità fiscale perché la domanda di dollari, la valuta di riserva globale, rimane solida e perché l’economia va bene; il processo di reindustrializzazione dell’America, fatto in primis a spese dell’Europa colpita dalla crisi energetica, è in atto. È possibile se non probabile che a un certo punto, senza cambiamenti di politica fiscale, il resto del mondo cambi idea sul dollaro, ma l’appuntamento con questa rivoluzione non sembra vicino.
Gli Stati Uniti non cambieranno politica monetaria e questo è un problema per molti Paesi e per l’eurozona. L’Europa, e l’Italia in particolare, non vive le stesse dinamiche salariali americane; non ci sono processi di reindustrializzazione, ma l’opposto, come accade a settori chiave come quello della chimica. In assenza di incrementi salariali adeguati alla salita dei prezzi i consumi si indeboliscono. Se l’Europa decidesse di non seguire la Fed la facile previsione sarebbe un indebolimento dell’euro, che è l’ultima cosa che ci si potrebbe augurare nell’attuale scenario energetico della Ue. La cavalleria della Fed, per un’Europa in crisi, non si vede all’orizzonte. La Fed in questo momento vede “solo” la lotta all’inflazione in un quadro economico positivo. Il paradigma dell’appartenenza all’Occidente che sembra valere in geopolitica non ha riflessi in una unità di performance economica.
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