«Privi di meraviglia restiamo sordi al sublime». Un’affermazione che si sa non essere farina del sacco del Maestro ma di quello del rabbino e filosofo polacco naturalizzato statunitense Abraham Joshua Heschel. Eppure qualcosa ci dice che non stonerebbe se la ritrovassimo sulle sue labbra in una qualche intervista o sul margine di uno dei suoi numerosi fogli di appunti. In quel caso, non sarebbe per nulla difficile immaginarselo “correre ai ripari” – subito dopo averla detta o scritta – schermendosi dietro a un’altra uscita delle sue o tratteggiandole accanto uno dei suoi schizzi, attingendo a quell’irresistibile vena romagnola propria di chi, sotto sotto, la Rimini dell’infanzia e dell’adolescenza non l’ha mai davvero abbandonata: abile vignettista umoristico, lascia infatti le rive dell’Adriatico e le sponde del Marecchia per gli argini del Tevere ormai diciannovenne, dedicandosi alla professione giornalistica in parecchi settimanali invece di frequentare l’Università, prima di intraprendere quella gloriosa carriera nell’ambito della settima arte che tutti conoscono.



In effetti, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, un grande irregolare di genio come Orson Welles lo aveva definito «un ragazzo di provincia che non è mai realmente arrivato a Roma. Ne sta ancora sognando. E dovremmo essere tutti riconoscenti per quei sogni. In un certo senso, sta ancora ritto fuori del cancello, a guardare attraverso le sbarre». E questa non è che una delle svariate immagini che colleghi, studiosi, critici, amici, conoscenti e ammiratori hanno coniato lungo tutta la seconda metà del Novecento per cercare di definire Federico Fellini, una delle massime espressioni della cultura romagnola (nel senso più ampio del termine), figura ormai appartenente al patrimonio artistico non solo nazionale bensì mondiale, il cineasta italiano dai cinque premi Oscar: dopo i primi quattro, arrivati nell’arco di tre diversi decenni, grazie alla categoria del miglior film in lingua straniera, introdotta a partire dal 1957 in sostituzione del “premio speciale” utilizzata fino ad allora – per La strada (1954, con Dino De Laurentiis che sale sul palco a ritirare la statuetta mentre il nostro rimane a sorridere seduto in platea), Le notti di Cabiria (1957), Otto e mezzo (1963) e Amarcord (1973, assente in sala ma in collegamento telefonico da Roma) -, l’ultimo finalmente nominale, per lui in persona, l’Honorary Award conferitogli alla carriera il 29 marzo 1993 – solo sette mesi prima della morte, occorsa il 31 ottobre – «in riconoscimento dei suoi successi cinematografici che hanno emozionato e divertito le platee di tutto il mondo», giunto dopo otto nomination da sceneggiatore – da notare le prime due, per Roma città aperta (1945) e Paisà (1946), entrambi diretti da Roberto Rossellini – e quattro da regista – per La dolce vita (1960), Otto e mezzo, Fellini – Satyricon (1969) e Amarcord.



In questo 2020 che più particolare non si poteva certo immaginare, apertosi nel segno dei cento anni dalla sua nascita – ricorsi il 20 gennaio -, la quarantunesima edizione del Meeting di Rimini in versione “special” – ovvero parte in presenza e parte in digitale – trasmesso dal locale Palacongressi ha in programma per oggi, venerdì 21 agosto, un grande evento dal titolo “L’artista e l’amico Federico” condotto dalla giornalista Francesca Fabbri Fellini, sua ultima erede, che a partire dalle ore 22 dialogherà con alcuni ospiti per ricordare e riscoprire lo zio Chicco (come lo chiamava lei) attraverso la voce di alcuni artisti tra quelli che lo hanno conosciuto, amato, citato e che, attraverso di lui, hanno deciso di intraprendere la loro carriera nel mondo del cinema: interverranno infatti in collegamento Giuseppe Tornatore, Sergio Rubini, Nicola Piovani, Matteo Garrone, Liana Orfei, Pupi Avati, Paolo Virzì, Carlo Verdone, Eugenio Cappuccio… A impreziosire ulteriormente questa già ricchissima serata felliniana, ci penseranno gli scatti d’epoca di Carlo Riccardi, gentilmente concessi dall’Archivio fotografico Riccardi. «Non poteva mancare in questo anno centenario», come ha tenuto a precisare la curatrice, «questa serata che sarà “un amarcord”, un cenacolo di amici chiamati da me. Ciascuno racconterà “il suo Fellini” come l’amico, il maestro, il “faro” come era chiamato dai collaboratori di Cinecittà». Otello Cenci, dal 1998 direttore artistico – e quindi coordinatore degli spettacoli – della kermesse riminese, ha invece ricordato per l’occasione che «Fellini ha sempre cercato di indagare l’insondabile, di andare l’oltre alla realtà, per questo si lega perfettamente al tema della meraviglia e dello stupore del Meeting».

Un appuntamento tutto da scoprire non all’insegna della nostalgia per un tempo che fu ma per (ri)fare memoria di uno sguardo su di sé e su ciò che ci circonda ancora valido per il nostro così sfidante presente.