Il termine femminicidio, nell’accezione attuale, risale agli anni 90, e indica omicidi con una caratteristica peculiare: la vittima è la donna “in quanto donna”. Si verificano, non per caso, in ambito familiare o all’interno di relazioni sentimentali poco stabili, quasi sempre ad opera di persone conosciute. Tra il 1° gennaio e il 30 giugno del 2024 in Italia sono stati commessi 49 femminicidi (a fine luglio diventati 55, nda), ciò nonostante, la legge italiana non prevede l’ipotesi di un reato autonomo, ma solo di una circostanza aggravante.



La recente normativa (“legge contro il femminicidio”, la 119/2013), che ha tra le sue motivazioni quella di rispondere al “susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato”, in teoria punta a contrastare e prevenire la violenza di genere che racchiude al suo interno varie categorie di condotte criminose: oltre all’omicidio, diversi tipi di maltrattamenti, stalking, percosse, lesioni, ecc. L’analisi statistica rivela un dato di estremo interesse ai fini della prevenzione e della formazione, sia delle donne che degli uomini. Nel 55,8% dei casi tra autore e vittima esiste una relazione sentimentale, in atto al momento dell’omicidio o pregressa. Se a questi si aggiungono i casi in cui tra autore e vittima esisteva una relazione precedente si scopre che circa il 75% delle donne muoiono nell’ambito familiare, all’interno cioè di quell’ambiente che teoricamente dovrebbe proteggerle di più.



Il 63,8% dei casi evidenzia che la vittima e l’autore erano coniugi o conviventi, il 12% fidanzati, il 24% aveva intrattenuto una relazione sentimentale terminata per vari motivi qualche tempo prima dell’omicidio. Il quesito chiave è sempre lo stesso: perché la reciproca conoscenza non consente di attivare una prevenzione efficace della violenza, interrompendo prima il rapporto, coinvolgendo i familiari della vittima, che assistono impotenti o indifferenti a questa mattanza insopportabile, che coinvolge progressivamente la donna, fino alla sua morte? La varietà delle situazioni e dei contesti è sorprendente, come si può vedere, ripercorrendo alcuni femminicidi che nel solo mese di agosto la cronaca ha portato alla nostra attenzione: uno alla settimana, tutti, chi più chi meno, hanno riempito, e in alcuni casi riempiono ancora, cronache dei giornali, Tg, web.



24 agosto, sabato pomeriggio: la vittima, docente universitaria di 29 anni, viene uccisa mentre si trova in vacanza alle Mauritius. Dopo settimane di chat ha deciso incontrare l’uomo conosciuto online, che si è trasformato nel suo assassino.

Lunedì 12 agosto Yuleisy viene uccisa con un colpo di fucile in testa, mentre nella stanza accanto c’era la figlia minorenne. Il compagno è accusato di omicidio volontario aggravato e maltrattamenti. I vicini hanno sentito uno sparo e hanno dato l’allarme: lui nega le accuse e parla di incidente.

Sabato 10 agosto una donna di 75 anni, Lucia Felici, viene trovata morta in casa, a Castelnuovo di Porto, vicino a Roma. Sul corpo della vittima sono stati trovati segni di violenza. Il marito, 82 anni, ha ammesso le proprie responsabilità davanti al pm e al suo avvocato difensore.

Mercoledì 7 agosto Annarita Morelli viene uccisa dal marito, Domenico Ossoli di 73 anni, che da tempo la controllava con il GPS e affermava pubblicamente: “Non le dò la separazione, piuttosto l’ammazzo”. La procura di Tivoli ha emesso un decreto di fermo con l’accusa di omicidio aggravato dalla premeditazione.

Giovedì 1° agosto Sharon Verzeni viene accoltellata in strada. Il killer conosceva certamente le sue abitudini e i suoi orari, molto probabilmente anche la collocazione delle telecamere nella strada in cui è stato commesso l’omicidio. Le indagini finora non sono approdate a nessun risultato.

È necessario interrogarsi sul fenomeno della violenza che, come è possibile vedere, può esplodere nell’uomo a qualsiasi età. Ma forse ancor più importante è cercare di capire come e perché una donna, con livelli economici e socioculturali anche di livello elevato, possa tollerare così a lungo anni di sopruso e di sistematica svalutazione della sua vita quotidiana. Come può accettare di sopportare una relazione tossica, che ne consuma l’anima e il corpo, più del cancro o di una patologia neurodegenerativa? AnnaMaria Nicolò, psicoanalista, parla della violenza di coppia come di una sindrome psicosociale e mette in evidenza come ancora oggi alcune caratteristiche della mente della donna, abitualmente considerate delle risorse, si possono tradurre invece in punti nevralgici. Per esempio, la sua predisposizione biologica e culturale a svolgere un ruolo di cura, l’empatia, la reciprocità, la capacità di connettere emozioni e razionalità, la tendenza a non moltiplicare i partners sessuali per formare una famiglia sono qualità che possono diventare punti di debolezza, poiché non sono considerati valori sociali forti in una cultura basata sul possesso e sul potere. Per questo la violenza di genere costituisce una vera e propria sindrome psicosociale in cui confluiscono cause diverse tra loro, ma convergenti in un unico focus che ferisce la donna profondamente. Ne riduce l’autostima e la capacità di reagire prontamente all’aggressione, mentre ne accentua i sensi di colpa e fa emergere una ingenua speranza di riuscire, prima o poi, a cambiare l’uomo, a ri-generarlo. Sono cause biologiche, transgenerazionali, intrapsichiche e interpersonali, oltre che sociologiche e antropologiche.

La violenza di coppia è di fatto una patologia transpersonale che non ha nulla a che fare con l’amore per l’altro, esprime piuttosto un distorto amore di sé, una sorta di narcisismo non risolto. Segni di questa patologia sono presenti, in modi diversi e in gradi diversi, in entrambi: uomo e donna, a cominciare dalla violenza psicologica che rende difficile la vita della vittima, ma lascia anche l’aggressore in preda ad una insoddisfazione che non si placa neppure davanti alla sua stessa violenza e alla sofferenza della vittima. L’aggressore, strutturalmente insoddisfatto, tende ad aumentare l’impeto della sua violenza, cercando nuove modalità e maggiore aggressività nella sua condotta violenta. La coppia, davanti ad una violenza che può esplodere in qualsiasi momento, senza bisogno di grandi provocazioni, non è mai contenta. Né l’uno, né l’altra. L’infelicità abita in entrambi i componenti della coppia, quando la violenza permea in modo diverso atteggiamenti e sentimenti, dell’uno e dell’altra. Va ben oltre i margini del conflitto ordinario che caratterizza la dinamica della vita delle coppie, cosiddette “normali”, il che non vuol dire che siano persone che non litigano mai! Nella dialettica della loro vita, costantemente alle prese con i problemi di ogni giorno – da quelli che riguardano i figli a quelli che riguardano il proprio lavoro professionale -, ci sono pause che includono spazi di pace, tempi di serenità e di felicità, possibilità concrete di star bene insieme e dedicarsi così alla risoluzione dei problemi.

Nelle coppie in cui abita la violenza come modalità abituale di stile di vita, l’unica soluzione possibile è la separazione, tempestiva, supportata dalla legge, ma accompagnata anche dal calore di persone amiche e dall’aiuto di persone competenti sul piano psicosociale. Per disinnescare la violenza, sempre in agguato quando le relazioni sono andate incontro ad un vero e proprio burnout, occorre allontanare, anche fisicamente, il rischio di un incontro ravvicinato. Una relazione tossica ha bisogno di disintossicarsi attraverso l’allontanamento dai fattori di rischio, per riscoprire nuovi modi di entrare e di stare in relazione senza maltrattare e senza farsi maltrattare. Paradossalmente, per il violento la persona su cui scarica la sua violenza è una continua forme di provocazione che scatena i suoi istinti peggiori.  L’azione sociale più efficace è quella che separa i contendenti prima che si raggiunga il drammatico epilogo del femminicidio.

La donna, che evidentemente è e resta la più debole tra i due, paga un prezzo che per definizione va sempre oltre quelle che possono essere state le sue colpe, i suoi errori, le sue ingenue pretese. Non c’è bisogno di attendere che muoia per capire che la vita di quella donna era in condizione di rischio permanente già da tempo…. Si può e si deve intervenire prima, senza inutili ritardi e senza sperimentazioni di qualsiasi tipo. Anche i figli vanno incontrati separatamente, a meno che non ci siano manifestazioni di violenza nei loro confronti, e in questo caso vanno allontanati per tutto il tempo necessario. Solo un allontanamento prolungato, e solo dopo nuove esperienze relazionali che abbiano permesso all’uno e all’altro di scoprire nuovi aspetti di sé, nuove modalità di gestire le proprie frustrazioni, e nuove modalità di soddisfare i propri bisogni affettivi, si potrà pensare ad un nuovo incontro; ammesso che qualcuno dei due lo desideri realmente.

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