Oggi ricorre il centenario della nascita di Beppe Fenoglio, a detta di molti il maggior narratore italiano del Novecento. Fenoglio ha scritto in una lingua che Piero Negri Scaglione, autore di una documentata biografia, definisce caratterizzata da “limpidità del dire, esattezza di termini. Nulla di pleonastico. Oggettività assoluta nel raccontare. Semplicità”. Se si pensa che ancora la nostra narrativa del secolo scorso oscilla tra la bolsa retorica di stampo dannunziano e gli imitatori delle movenze francesi o inglesi, c’è da baciare la terra delle Langhe, su cui Fenoglio ha appoggiato i piedi, per avercelo dato: lui che scriveva “facendo una fatica boia” ha dato alla nostra lingua e alla nostra letteratura una nuova, inedita, splendida possibilità di espressione. Dovremmo essere contenti che uno di noi, uno scrittore, abbia usato la nostra lingua madre in questo modo. Artisti del genere ci allargano la testa e il cuore.



Fenoglio ha scritto soprattutto della Resistenza, che lui preferiva chiamare Guerra Civile. E forse in questo sta già il misterioso motivo per cui sia poco letto dal pubblico e quasi per nulla proposto a scuola; il criterio ideologico di scelta degli autori, sebbene dichiarato defunto, ancora serpeggia occulto da molte parti. Sta di fatto che quando, ogni anno intorno al 25 aprile, si apre la diatriba tra gruppi ideologici opposti (negazionisti degli orrori fascisti contro guardiani della rivoluzione partigiana) che tirano gli eventi da una parte e dall’altra lasciando disgustati quelli che vorrebbero conoscere la verità dei fatti, anche giovani, bisognerebbe consigliare di leggere Fenoglio.



Perfino Italo Calvino, che gliene ha combinate di tutti i colori, ha dovuto ammettere che l’unico vero libro sulla Resistenza, “quello che mancava” e che tutto il corpulento ma breve periodo del Neorelismo non era riuscito a fare, l’aveva scritto proprio lui, Fenoglio, “il più isolato di tutti”. Si intitola Una questione privata. Ma a scuola si legge molto di più “Il sentiero dei nidi di ragno”, proprio di Calvino, altro romanzo sulla Resistenza.

Il motivo è veramente misterioso, spiegabile solo con la nostra atavica pigrizia culturale, o col nostro conformismo da impiegati statali. Per quanto possa averlo riletto, non ho ancora la più pallida idea di quale sia il reale contributo di Calvino alla conoscenza della Resistenza, dell’epoca sua, dell’uomo in generale. Un abisso lo separa da Fenoglio. E un abisso separa la scuola dalla consapevolezza dei veri valori da insegnare.



Ma Fenoglio non può essere chiuso nel discorso della Resistenza, dove lo confina chiunque ne parli, fosse anche un estimatore. Il Partigiano Johnny, il protagonista della sua opera più citata anche dai moltissimi che non l’hanno letta, trascende la Resistenza ed essendo un capolavoro, apre a una conoscenza totale dell’uomo. Si tratta di un romanzo epico, assoluto, universale, perfino nella sua incompiutezza (è uscito postumo, dopo un non facile lavoro di ricostruzione filologica compiuto sui suoi dattiloscritti inediti). Limitarne la lettura al discorso sulla Resistenza sarebbe come dire che l’Iliade di Omero è importante perché ci descrive l’arte bellica della Grecia arcaica o Moby Dick di Melville perché ci spiega la strategia di caccia alle balene.

Fenoglio scrisse della Resistenza perché fare il partigiano fu l’avvenimento centrale della sua vita. Neppure finiti gli studi, a vent’anni circa (si era appena iscritto all’università) fu recluta nell’esercito regio e, allo sfaldamento vergognoso di questo dopo l’8 settembre, tornato in Piemonte entrò nelle formazioni partigiane. Questa cosa gli cambiò così tanto la vita che non tornò mai più all’università. E, nel frattempo, aveva abbracciato la vocazione, l’agonismo, la fatica dello scrittore, come diceva lui stesso. Scrivere fu per Fenoglio stare di fronte tutta la vita (breve ahinoi, morì quarantenne, dopo essere diventato padre da appena un anno) a quell’avvenimento fondamentale, applicando ad esso la sua ragione, le sue domande, le sue ferite, la sua prodigiosa ricerca della parola per dirlo. Questo fa di lui un genio della letteratura: non l’applicazione pregiudiziale della ragione alla realtà (che si chiama ideologia), ma l’attenzione seria e generosa, profonda e faticosa di fronte ai fatti, tutti, quelli piccoli e quelli grandissimi, alla cronaca minuta degli uomini della sua terra e agli eventi storici e mondiali.

Non è difficile azzardare questa conclusione, dunque, anche se scandalizzerà qualcuno: Fenoglio sarebbe stato Fenoglio anche senza Resistenza. Tant’è vero che quando ha parlato d’altro, come nel romanzo La malora, cronaca della società contadina delle Langhe che sta all’altezza del “romanzo perfetto”, cioè Una questione privata, il suo talento non è venuto meno. Ma così anche in innumerevoli racconti, partigiani o no. Occorre che questo centenario non passi invano, non sia come altri mera occasione celebrativa, ufficiale o no. Facciamo continuamente chiacchiere vuote sulla nostra identità, sulla nostra storia, sul leggere, sull’importanza della cultura, sulla scuola. Prendere in mano i libri di Fenoglio è, non solo quest’anno, un’ottima occasione per passare dalle chiacchiere ai fatti.

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