Le prime pagine dei quotidiani e dei telegiornali sono occupate dalla buccia di banana su cui è scivolata Chiara Ferragni con tutto il marito Fedez. La vicenda è oramai nota a chiunque, anche se meriterebbe di essere relegata solo sui siti di gossip.
Ma il fenomeno degli influencers – che secondo un feroce meme apparso in rete esistono per abbindolare i deficenters – ha assunto una tale importanza di carattere industriale/pubblicitario per il volume d’affari generato, da giustificare un tale interesse.
Tallonata da un cane da tartufi come Selvaggia Lucarelli (chi di social ferisce di social perisce…), la Ferragni si fa cuccare in quello che sembra essere un suo metodo consolidato: far credere che più si vendono certi prodotti da lei sponsorizzati, maggiore è la donazione riservata a una causa benefica promossa come responsabilità sociale della sua impresa. Nel caso del pandoro Balocco, l’Agcom ha scoperto che a fronte di una donazione fatta in precedenza dall’azienda, i dolci griffati Ferragni venivano venduti a quasi il triplo del prezzo per pagare alla Ferragni stessa un compenso di un milione di euro. Così la Lucarelli afferma essere successo anche con le uova di Pasqua, e anche su questo la magistratura sta indagando.
Colta con le mani nel sacco, vale a dire nel cercare di gloriarsi con una carità che definire pelosa è un povero eufemismo, la mitica Chiara ha provato a metterci una toppa che si è rivelata ben peggiore del buco: presentandosi tutta dimessa sui social senza trucco e con una triste maglietta grigia, scusandosi per l’inconveniente e promettendo di devolvere in beneficenza ben un milione di euro, che per una che incassa 40 milioni l’anno sono bruscolini. Con l’eleganza tipica del personaggio, suo marito Fedez ha fatto un video prendendo le distanze dalla moglie (sic!) vantandosi di aver pure donato un tot di posti letto per l’ospedale Covid alla Regione Lombardia. Subito sbugiardato dalla Regione stessa.
Insomma, commettendo una serie di errori di comunicazione da manuale, la coppia più smart della rete sta facendo indignare e scappare decine di migliaia di follower al giorno. Se il trend dovesse continuare, sarebbe una vera tragedia per un’impresa fino a ieri considerata come una gallina dalle uova d’oro, fondata però sulla volatilità dei like.
Conviene quindi cercare di capire cosa c’è alla base del fenomeno degli influencer.<
Già dagli anni ’80, quando i prodotti e i servizi hanno cominciato ad assomigliarsi, le imprese si sono impegnate nel fare una pubblicità e una comunicazione che facesse più leva sull’appartenenza a un gruppo sociale con certi stili di vita o a una tribù, piuttosto che sulle qualità intrinseche dei beni promossi.
Brand come Nike e altri non solo hanno riportato in auge la vecchia figura del testimonial, ma lo hanno anche fatto diventare un promotore di istanze sociali (vedi Black lives matter) e – complessivamente – della woke culture.
Non dobbiamo poi dimenticare che con l’avvento di internet e degli smartphone l’interattività ha dato vita a una grande rivoluzione: chiunque, dotato di capacità di eloquio e coinvolgimento umano può diventare in potenza un influencer. Ma non solo. Scoprendo che la monetizzazione dei like poteva pure portare ritorni economici, quelle che per un po’ sono dilagate come scherzi, gag, karaoke, sono diventate delle vere e proprie attività commerciali cui aspirano frotte di giovanissime che, ad esempio – specie quelle prive di ogni decenza – si mostrano seminude sculettando su Onlyfans, imitando la famosa cantante che ha insegnato loro a “twerkare”.
Si semplifica per non annoiare, ma questo è quello che è avvenuto. In un contesto sociale in cui milioni di ragazzi non hanno altra aspirazione se non quella di diventare ricchi e famosi in poco tempo. E che, non potendolo fare, si accontentano di fare parte della tribù di quelli che ce l’hanno fatta, di vestirsi secondo i loro consigli, di andare ai loro concerti, di comprare i prodotti griffati con il loro nome, di seguire le loro “stories” su Instagram o addirittura le serie tv che raccontano la loro noiosa vita quotidiana.
L’amaro paradosso è che questi abili furbastri sono pure diventati i maitre à penser di giovani e meno giovani, diffondendo a mani basse il loro non-pensiero intriso soprattutto di relativismo etico. Per non parlare dei loro modesti rap basati su basici ritmi tribali tutti uguali e su testi di cui la Buoncostume (ma esiste ancora?) si dovrebbe occupare e preoccupare. E dire che ora stampa e tv si lamentano all’unisono della violenza alle donne, ignorando che il contesto in cui vivono influencers e deficenters esprime un linguaggio di efferata violenza, come testimoniano i testi di molti rap. Per non parlare delle pressanti esortazioni alla fluidità sessuale e quindi in sostanza alla progressiva perdita di ogni identità.
Ecco come si spiega che una ragazza le cui uniche doti estetiche sono dei gran begli occhi, ma abilissima nel truccarsi e nel coinvolgere le coetanee prima con la proposizione del suo blog Blonde Salad e poi dei suoi outfit, sia diventata in pochi anni una famosa Fashion Blogger. Raggiungendo una tale massa di follower, quasi trenta milioni, da destare l’interesse di multinazionali del fashion che oltre a farla diventare Brand Ambassador l’hanno addirittura cooptata nei loro consigli di amministrazione, come ha fatto Tod’s.
Ma non bisogna mai dimenticarsi dei vecchi proverbi, come quello che recita: “Chi troppo in alto sale, sovente precipitevolissimevolmente cade”.
Oggi la coppia dei Ferragnez si dibatte in quella che tecnicamente si chiama “reputation crisis”, alla quale i due stanno reagendo da veri dilettanti, lei mostrandosi dimessa e malvestita come ha fatto Soumahoro (non si contano in rete i meme con i due appaiati) a chiedere scusa per gli errori commessi, lui a fare lo sgradevole gradasso dicendo che negli affari della moglie non c’entra e raccontando bugie sulle proprie donazioni, che ben presto esperti commercialisti hanno scoperto essere soprattutto utili per le detrazioni fiscali.
Ora, avviene che il pubblico dei deficenters, abituato a vivere di sentimenti primordiali, una volta scoperto che i loro idoli si sono macchiati del vergognoso peccato di speculare sui poveri e sui bambini malati, si rivolti rabbiosamente cancellando i like. Ben presto praticheranno il boicottaggio di tutto quanto promosso dai due, mentre alcuni auspicano già la ghigliottina mediatica. Sul cui palco troneggia a mo’ di boia giornalistico la sempre più imponente Selvaggia.
Nel frattempo, alcune società specializzate nelle analisi in rete, sostengono che fino al 29% dei follower della coppia potrebbero essere frutto di trucchi informatici, aprendo una finestra di discussione tecnica assai interessante su tutto il fenomeno.
Non può quindi non colpire come grandi multinazionali siano rimaste impelagate in questo pasticcio inseguendo il labile indice del numero dei follower, a prescindere da una minima profondità di pensiero degli influencer in questione. Ma questo la dice lunga sul degrado culturale che sta invadendo anche il mondo delle imprese, ultimamente quasi tutte impegnate a diffondere la woke culture credendo che serva a vendere di più.
Meno male che un attore dall’indiscussa autorevolezza come Anthony Hopkins ha appena avuto il coraggio di dire che il re è nudo: “Oggi viviamo nella cultura del nuovo fascismo, della cancel culture. Se dici qualcosa sparisci”.
Ma si può sparire anche per aver speculato su poveri malati.
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