Ha 14 anni eppure trovare un rapporto tra la linea editoriale e un’identità risulta ancora difficile per la Festa del Cinema di Roma. Sarà l’adolescenza, saranno i molti cambi di rotta e direttore, ma ancora oggi ad Antonio Monda non è riuscito del tutto il cambio di passo che si auspicava dopo la gestione di Marco Müller, che a fronte di una ricerca di film inediti e di sguardi originali sul cinema aveva portato al punto più basso come presenza di ospiti e pubblico.
Monda invece ha decisamente puntato tutto sugli ospiti e sugli incontri, più che sui film, e le presenze si sono un po’ rialzate, ma l’impressione è che la cornice dell’Auditorium non accolga la festa popolare che la Fondazione Cinema per Roma vorrebbe dalla Festa. Dare a una festa del cinema il vestito di una Convention in cui incontrare attori e divi è un po’ svilire il concetto nobile della kermesse popolare e cittadina, in cui Berlino e Torino sembrano i modelli di riferimento. Convogliare tutta la città nel presidio in zona Olimpica è un’impresa utopica, visto che le sale cittadine come il Savoy sono usate in maniera tangenziale, ma soprattutto perché pensare che la città più popolosa di Italia faccia chilometri e ore di auto o mezzi pubblici per sentire Bill Murray biascicare scherzi rifiutando di farsi tradurre o John Travolta che millanta di aver rifiutato ruoli e rovinato carriere è un’utopia.
I cinefili, specie i più giovani, però si godono la vicinanza delle star e di poter sentir parlare personaggi come Martin Scorsese e Bret Easton Ellis, e va bene così. Se in una festa del cinema, però, gli incontri di varia natura – quest’anno anche gli scontri tra critici su un determinato film o autore, oppure delle lectio magistralis di vari personaggi della cultura – pareggiano il numero dei film è segno che forse qualcosa va rivista, proprio nell’ottica dell’afflato popolare: la polemica sulle anteprime è insensata, almeno per chi scrive, e una manifestazione come questa a cercare film attesi come The Irishman o Downton Abbey, anche se poi escono in sala pochi giorni dopo. Però poi agli altri film, quelli che non vengono illuminati dai riflettori, devi dare un giusto spazio e non accatastarli l’uno sull’altro in pochi giorni di programmazione, alternando schizofrenicamente la sensazione del caos bulimico e quella del nulla.
Dal punto di vista dei film scelti la fa da padrone il cinema Usa, soprattutto di matrice indipendente come l’apprezzato Waves di Trey Edward Shults o quasi pop come il buon Hustlers di Lorene Scafaria, ma a conquistare i cuori è stato il cinema francese: le commedie La belle epoque di Nicolas Bedos e Le meilleur resta à venir di Alexandre de la Patellière e Matthieu Delaporte sono forse i film più belli della selezione ufficiale. Fermo restando che il meglio lo ha dato (come spesso) Alice nella città, la sezione indipendente dedicata ai ragazzi: i film migliori (Scorsese escluso) di questa Festa erano lì, dalla fiaba nera Adoration di Fabrice Du Welz al quasi horror Zombi Child di Bertrand Bonello, dalla distopia affettiva di Light of My Life di Casey Affleck al verismo minuzioso e caldo di Adolescentes di Sebastien Lifshitz. A riprova che l’adolescenza può essere anche, soprattutto forse, il momento della scoperta.