È tempo di “interrogarsi su quale sia il senso del lavoro nel proprio percorso di crescita, non solo professionale ma anche personale, perché il lavoro impatta inevitabilmente sulla vita delle persone. (…) Porsi questa domanda è indispensabile per concepire il lavoro non solo come un mezzo di sostentamento, magari intriso di rinunce e sacrifici, ma come espressione della persona e della propria identità, uno strumento di autodeterminazione e realizzazione personale, costruito su una solida rete di relazioni, professionali e umane”.
Lo sostiene Tiziano Barone, direttore dell’agenzia regionale VenetoLavoro, riprendendo e riassumendo i temi oggi più ricorrenti nelle dinamiche del mercato del lavoro, tra la cronica mancanza di personale, la great resignation (le dimissioni volontarie), il massiccio tournover, l’autodeterminazione degli addetti.
Nella giornata che festeggia i lavoratori, si può ricordare l’avvenuta inversione del meccanismo di recruiting: dall’azienda che sceglie il dipendente, al lavoratore che sceglie l’azienda. Barone ricorda che oggi “il lavoratore va corteggiato e il talento ricompensato”, e lo ricorda perché nella lamentazione delle imprese sulla scarsa disponibilità di forza lavoro si trascura che spesso sono le imprese a non sapere trasmettere un giusto appeal, tra poca gratificazione, pochissime prospettive, non adeguati riconoscimenti retributivi e assenza di qualsiasi ascensore sociale. Ma il salario non è più solo il tempo di lavoro pagato, perché il lavoro è inteso anche come realizzazione di sé, come modalità di espressione e, appunto, di autodeterminazione. E in questa bilancia pesa molto il tempo del non-lavoro, quello disponibile per la famiglia e il tempo libero, difficilmente sacrificabile. “Oggi un lavoratore con competenze spendibili può trovare, anche abbastanza facilmente, un impiego più confacente alle proprie aspettative”. È questa la base della grande mobilità di questi tempi, il lavoro fluido, il tramonto di una vita professionale iniziata e finita sotto lo stesso tetto aziendale.
Se una cultura d’impresa scarsa o ristretta al cerchio magico della dirigenza non viene poi diffusa e condivisa nella totalità del capitale umano, i presunti valori del brand o di quel business non sono assolti, il team-building svanisce, i rendimenti calano e il nuovo reclutamento diventa sempre più difficile. Tutto questo si somma ad altri fattori largamente impattanti: la denatalità, e quindi in prospettiva una sempre minore disponibilità di personale; le specializzazioni aziendali, che implicano la necessità di addetti con qualifiche spesso diverse da quelle presenti; la carenza di percorsi formativi idonei e agganciati alle necessità del mondo del lavoro; la sclerosi dei flussi migratori d’ingresso. Da qui al 2027, secondo il report Unioncamere-Anpal, il mercato del lavoro italiano avrà bisogno di 3,8 milioni di lavoratori, di cui 2,7 milioni in sostituzione di quanti usciranno dal mondo del lavoro e 1 milione di nuovi ingressi. Con i trend attuali, sarà una fortuna riuscire a coprirne la metà.
L’1 maggio quest’anno festeggia dunque i lavoratori di nuovo tipo e nuove generazioni, distanti anni luce dai cipputi in salopette jeans, meglio disposti invece a impiegare parte del loro tempo in mansioni che rechino soddisfazione, con scopi evidenti e condivisi, con partecipazione nella conquista di obiettivi, e relativa gratificazione, anche economica o di secondo welfare. Per contro, ancora sembra da raggiungere la diffusa disponibilità dei lavoratori alla formazione continua – che dev’essere la base di qualsiasi lavoro fluido – e la consapevolezza che comunque il salario paga ancora il tempo, anche se ben definito, ma quel tempo implica anche fatica e impegno.
La fluidità, insomma, non coincide con la distrazione e la sostanziale passività. Eppure oggi in Italia l’Istat calcola che esistano circa due milioni di Neet (not engaged in education, employment or training), giovani che non studiano, non frequentano corsi di formazione e non lavorano. Ma anche questo fenomeno potrebbe essere imputabile all’inadeguatezza delle imprese e dell’impianto sociale, entrambi fossilizzati in logiche e inerzie che avrebbero bisogno di un radicale aggiornamento. Per raggiungere un mercato del lavoro più dinamico, più flessibile, più motivante, necessario per incrociare positivamente domanda e offerta.
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