L’8 marzo si celebra la Giornata internazionale dei diritti delle donne, in memoria di tutte le conquiste sociali che, nel secolo scorso, si registrarono. Per troppi anni, tale commemorazione è stata, impropriamente definita come “Festa della donna”; se attualmente ogni donna, deve faticare per preservare il proprio diritto alla vita (una donna, ogni tre giorni viene uccisa); il panorama socio-giuridico è drammatico, e c’è veramente poco da festeggiare.
Il movimento di emancipazione femminile ha origine nel’ 700, in concomitanza dei principi innovativi e di modernizzazione della rivoluzione industriale e dei principi illuministici; le donne iniziano a prendere maggior consapevolezza di sé stesse, a sentire sempre più seria e profonda la necessità di affermare la propria indipendenza. Sarà con la Grande Rivoluzione francese del 1789 e la contestuale pubblicazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che venne riconosciuta alla donna la capacità civile ovvero la possibilità di comprare, alienare, costituirsi in giudizio come parte o testimone.
Una pagina di storia significativa, in materia di diritti delle donne, si è registrata nel Primo Conflitto Mondiale; le donne, la storia lo narra, hanno sempre dimostrato un forte senso di responsabilità e solidarietà umana. Gli anni del Primo Conflitto, sono stati significativi per la riforma sociale femminista, la mobilitazione implica un incremento assoluto dell’impiego femminile nel settore metallurgico, elettrico e chimico.
Dati storici indicano in Germania, un aumento di oltre il 50% di donne impiegate nelle grandi industrie, il sindacato britannico registra un picco dal 24 % al 38% di accesso delle donne ai lavori considerati prettamente maschili. In Russia si passò dal 30% nel 1913 al 40% nel 1916, la Francia risulta il paese con maggiore occupazione femminile, le donne iniziano ad assumere ruoli di pubblico servizio, e svolgere compiti maggiormente diversificati. Sono 400.000 all’inizio del 1918, un quarto della mano d’opera totale, un terzo nella regione di Parigi vero e proprio simbolo della massimizzazione delle donne in settori lavorativi, tradizionalmente maschili.
L’avvento del Fascismo spezzò ogni tendenza innovatrice della condizione sociale della donna, riportandola indietro di molti decenni, eclissandola dal mondo del lavoro ed umiliandola a mera custode del focolare. La donna idealizzata dal Fascismo, rimane ancorata alla sostanziale continuità con l’antico regime, viene subordinata alla dicotomia donna-figlia oppure donna-moglie; è certamente, una legislazione pensata e scritta, con l’intento, subdolo, di rafforzare la condizione maschile ed invocare, sempre più, il penoso principio giuridico dell’infirmitas sexus, ovviamente al femminile.
Gli impatti del Primo Novecento, furono notevoli e tutti tesi a mortificare l’intellettualità della donna, lo dimostrano la fitta serie di Regi Decreti Mussoliniani, che ebbero l’intento di allontanare le donne dal mondo del lavoro, vietandole l’accesso ai pubblici uffici, di occupare posizioni dirigenziali; la Riforma Gentile che indirizzava le donne “ad una preparazione teorica e pratica necessaria per l’insegnamento dei lavori femminili o della economia domestica”.
Le donne italiane dovettero aspettare la promulgazione della Costituzione, per vedere regolamentati quei diritti che per troppi anni le furono negati: l’art. 3 il riconoscimento della parità di sesso, art.37 parità salariale, art 48. Libertà al voto, art. 51 libertà di accesso agli uffici pubblici ed alle cariche elettive. Nonostante il principio di uguaglianza sia lapidariamente regolamentato dalla nostra Costituzione, sia formalmente che sostanzialmente; uguaglianza e differenza sono gli argomenti più dibattuti nel pensiero attuale.
Il Gender Gap in Italia, è ancora a livelli preoccupanti, lo dimostrano i dati del Global Gender Gap del World Economic Forum 2023, il cui livello di disparità è pari al 68,4% nel 2023; il che significa per le donne italiane, che solo tra 131 anni potranno raggiungere la parità di genere. E’ diminuita nell’ultimo biennio la rappresentazione femminile in vari settori: non l’interesse quanto l’intraprendere carriere STEM, il livello di partecipazione politica che passa dalla 40esima posizione alla 64esima, solo l’11,5% delle imprese è a maggioranza femminile nella proprietà e solo il 15,3% dei top manager nelle imprese è donna. Per quanto riguarda i dati relativi al tema della conciliazione vita-lavoro, circa 1 donna su 2 dedica al lavoro retribuito meno di 35 ore a settimana.
Il processo d’ empowerment femminile è ancora troppo lontano dal realizzarsi; non casualmente, infatti, la parità di genere, rappresenta una priorità trasversale del Piano di Ripresa e Resilienza che, contempla misure e rispettive risorse volti ad incidere sugli indicatori di valutazione di condizioni delle donne. Abbiamo bisogno di azioni positive volte a garantire il riequilibrio di situazioni di svantaggio, di una legge elettorale che garantisca le pari opportunità, di un solido intervento legislativo che tuteli la madre lavoratrice oltre il terzo anno di età dell’infante; di una riforma costituzionale in materia di servizi educativi di prima infanzia, di ottimizzare il welfare statale ed aziendale, di ridurre l’aliquota IRPEF sul secondo reddito, generalmente maturato da donne.
Una legislazione tendente a realizzare la parità dei sessi, “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici ed alle cariche elettive”, esprime l’esigenza di differenza e non di uguaglianza; pertanto, legittima e valorizza le discipline differenziate. Prima di attuare un piano d’intervento di misure e strumenti diretti a recuperare condizioni di parità di chances bisognerebbe, come suggeriva la filosofa del diritto Letizia Gianformaggio, educare all’idea di uguaglianza, intesa come principio della dignità umana, volta a valorizzare le differenze e garantire il riconoscimento dei diritti fondamentali erga omnes. E condurre una vera e propria lotta contro gli oppressori del genere, da tradursi come violazione del principio d’uguaglianza; oltreché mera discriminazione.
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