Se l’8 marzo vogliamo parlare di questione femminile dobbiamo avere il coraggio di dirci la verità. Parliamo di certificazione di parità di genere (legge del n.162 /2021): dal 2022 alle aziende private in possesso della certificazione di genere UNI/Pdr 125:2022 è concesso un bonus contributivo sul versamento dei contributi previdenziali complessivi a carico del datore di lavoro nel limite massimo di 50.000 euro annui per ciascuna azienda, compreso un riconosciuto punteggio premiale per la valutazione, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, di proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti. C’è il contributo, erogato agli organismi di certificazione accreditati per un massimo di 12.500 euro a impresa, 2.500 euro direttamente per coprire le spese di servizi di consulenza e accompagnamento alla certificazione, tramite sistema di voucher. Ma questo “business” che impatto ha avuto sull’aumento dell’occupazione femminile? E sulla riduzione di gender gap nelle imprese? Che piccole micro e medie imprese si sono certificate?
Il Tavolo interministeriale previsto dalla legge che concorre al funzionamento del Sistema di certificazione della parità di genere con approfondimenti, elaborazione di proposte e monitoraggio delle attività ha prodotto dati sull’impatto concreto? A parte la pletora dei componenti di assistenza tecnica fornita da enti di consulenza convenzionati, quante donne sono state assunte con questo “bollino”? Quante imprese certificate hanno modificato l’organizzazione del lavoro?
Leggiamo i dati sulle dimissioni dal lavoro 2022 dell’Ispettorato del lavoro nazionale pubblicati nel gennaio 2024, che ci confermano che la scelta di abbandonare il luogo di lavoro è: 44.699 convalide riferite a donne, il 96,8% (43.284 provvedimenti) attiene a dimissioni volontarie, il 2,3% (1.032) a dimissioni per giusta causa e lo 0,9% (383) a risoluzioni consensuali. Delle 16.692 convalide riferite a uomini, 16.161 (anche in questo caso il 96,8% del totale) riguardano dimissioni volontarie, 236 (1,4%) dimissioni per giusta causa e 295 (1,8%) risoluzioni consensuali. Il dato di partenza fotografa, anche per il 2022, il profondo squilibrio di genere nei destinatari dei provvedimenti di convalida: le donne rilevano per il 72,8% di tutte le 61.391 convalide ampiamente intese (M+F), ma sono anche il 72,8% delle dimissioni volontarie, l’81,4% delle dimissioni per giusta causa e il 56,5% delle risoluzioni consensuali. Nel 2021 il 71,8% si riferivano a donne e il 28,2% a uomini: il dato negativo continua a crescere.
Parliamo di medicina di genere. Dal 48° Congresso dell’associazione di medici di direzione sanitaria ospedaliera emerge che “tuttora, negli studi clinici randomizzati controllati, solo il 20% dei pazienti arruolati sono donne, così come soltanto la metà degli studi clinici su cui si basano le evidenze e le linee guida prendono in considerazione analisi sul genere. Tra queste, soltanto il 35% fa analisi per sottogruppi. Come società scientifica che si occupa di ricerca e formazione non possiamo non porre l’attenzione sul fatto che, in questo momento, il 90% dei farmaci che abbiamo sviluppato e che stiamo utilizzando sono stati studiati e sviluppati per il genere maschile, così come il 70% dei dispositivi. Nel campo della prevenzione dobbiamo arrivare a una sovrapposizione totale degli indicatori di salute nei due generi. Queste conoscenze, se usate bene in prevenzione, possono incidere fortemente sui fattori di rischio che, in modo diverso, espongono a maggiore rischio di sicurezza un genere anziché un altro”.
Chiudiamo con occupazione femminile e lavoro: dal Servizio studi della Camera, le donne occupate sono circa 9,5 milioni, i maschi occupati sono circa 13 milioni. Una donna su cinque fuoriesce dal mercato del lavoro a seguito della maternità e ha particolare rilevanza in quanto indice della difficoltà per le donne di conciliare esigenze di vita con l’attività lavorativa. La decisione di lasciare il lavoro è infatti determinata per oltre la metà, il 52/%, da esigenze di conciliazione e per il 19% da considerazioni economiche. Il divario lavorativo tra uomini e donne è pari al 17,5%, divario che aumenta in presenza di figli e arriva al 34% in presenza di un figlio minore nella fascia di età 25-54 anni.
C’è tanto ancora da fare e poco da festeggiare: lo abbiamo scritto, spiegato, proposto anche con strumenti innovativi come l’utilizzo dei Fondi bilaterali per maggiore flessibilità lavorativa sussidiaria in ambito contrattuale e la possibilità di conversione del premio di risultato 2023 in tempo, ossia nei c.d. “welfare days”, nel limite della capienza dell’importo del premio, di particolare valore per coloro che abbiano necessità o interesse a usufruire di uno strumento aggiuntivo di bilanciamento tra vita privata e lavorativa.
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