Correva l’anno 1506 quando papa Giulio II, su richiesta del duca Carlo II di Savoia e di sua madre Claude de Brosse di Bretagna, approvò il culto pubblico e l’ufficio della Sindone, stabilendo di celebrare la festa in onore del Sacro Telo il 4 maggio.

Questa data non fu casuale, ma venne scelta in quanto era il giorno seguente alla festa dell’Esaltazione della Croce (che in quel periodo storico non era celebrata il 14 settembre, come avviene oggi, ma il 3 maggio), e sancì l’avvenuta accettazione del culto del Lenzuolo da parte di una Chiesa che aveva guardato a questo oggetto con iniziale diffidenza.



Il 4 maggio di ogni anno la Sindone (che in questo periodo si trovava ancora a Chambéry, in quanto il definitivo trasferimento a Torino non era ancora avvenuto) era esposta alla venerazione dei fedeli, che accorrevano numerosi per poter essere testimoni diretti di quel prodigio scritto con il sangue che richiamava in maniera immediata la narrazione della Passione di Cristo nei Vangeli.

Le vicende che la Sindone ha attraversato nel corso degli oltre cinque secoli che ci separano dal 1506 sono state innumerevoli e spesso tumultuose. Il lungo telo di lino che reca su di sé l’immagine dell’Uomo crocifisso è passata dall’essere palladio di una famiglia reale a proprietà della Chiesa di Roma; si è salvato dai pericoli legate alle due guerre mondiali e alle fiamme di un incendio; è divenuto oggetto di contesa e di scontro sul fronte scientifico, da quando, nel 1898, la sua prima fotografia mostrò con impressionante evidenza che quell’immagine destava interrogativi più ampi di una qualsiasi raffigurazione fatta da mani umane, e non poteva dunque essere facilmente archiviata come falso o come superstizione.

Nonostante queste complicate vicende, ancora oggi, il 4 maggio di ogni anno, celebriamo la festa in onore della Sindone. Dopo più di 500 anni, ogni 4 maggio ricordiamo con intensità e gioia ancora maggiori che Torino custodisce per noi il Lenzuolo che, oggi come allora, richiama il nostro sguardo e la nostra attenzione, permettendoci di ricordare che Qualcuno è morto per farci il dono della vita che non finisce.

Nella nostra pochezza, nella nostra limitatezza terrena, abbiamo bisogno di qualcosa (una data, un’immagine, un segno) che ravvivi in noi il ricordo di quanto è stato fatto, che ci rammenti dell’importanza di meditare su tutte le domande che riguardano la profondità del nostro animo e del nostro rapporto con il Creatore.

La festa della Sindone ha questa funzione, perché rende evidente ancora una volta il valore della Sindone come “specchio del Vangelo” (come l’ha definita san Giovanni Paolo II), e dunque come strumento preferenziale per meditare sulla passione, morte e resurrezione di Gesù.

La meditazione sulla Sua passione e morte avviene attraverso la contemplazione delle Sue ferite, che richiamano in maniera evidente e diretta le sofferenze che Egli ha affrontato per la nostra salvezza.

La resurrezione è invece richiamata dalla presenza stessa del Lenzuolo, esso solo rimasto nella tomba vuota a testimonianza del fatto che il corpo di Cristo non è più presente, ma risorto come adempimento delle promesse del Padre nella Sua rinnovata alleanza con l’uomo.

Il discorso sull’autenticità della Sindone passa in secondo piano, alla luce di questa prospettiva: il Lenzuolo conservato nel Duomo di Torino acquisisce un’importanza autonoma, slegata dall’indagine sulla sua appartenenza al corredo funebre di Gesù, la cui dimostrazione ridiviene così appannaggio della scienza, ma lascia spazio alla meditazione personale e collettiva di fronte alla Verità più grande.

Lasciamoci dunque guardare da quell’immagine, lasciamo che essa prenda i nostri cuori e li trasformi, attraverso la sua “stupefacente testimonianza che ci parla, nel suo silenzio, in maniera meravigliosa” (san Giovanni Paolo II); lasciamoci “raggiungere da questo sguardo, che non cerca i nostri occhi ma il nostro cuore” (papa Francesco).

Facciamo silenzio nella nostra anima, per poter essere veramente liberi di contemplare quel volto che Dio ci ha regalato e attraverso il quale Egli, a Sua volta, ci guarda con l’amore di un papà.