C’è un giorno, tra le centinaia dell’anno solare, che mi scalda il cuore. È secondo soltanto al giorno del mio compleanno, il memoriale della mia nascita al mondo: è il giorno dell’onomastico. Che, per chi si chiama Marco, accade il 25 aprile: san Marco evangelista.

Mi ha sempre intrigato che, tra le migliaia di nomi possibili, mamma e papà mi abbiano cucito il nome che indosso. Pensare al nome, al mio nome, è una di quelle cose che mi avvincono: mi piace pensare che, giorno dopo giorno, il nome prenda una forma sempre migliore e s’impegni nell’avventura di divenire un capolavoro. Sentirsi chiamati per nome – “Marco!” – trattiene particelle di magia: “Ieri, quando il tuo nome qualcuno ha pronunciato – scrive W. Szymborska –, mi è parso che una rosa sbocciasse sul selciato”.



Potranno raccontare di noi mille volte e in mille modi, ma il nostro nome resta la maniera migliore per dire chi siamo (stati). Nel tempo, ho ripensato migliaia di volte dove avrei voluto nascere, se solo avessi potuto scegliere; che nome avrei sognato d’indossare se avessi potuto deciderlo. C’è un solo luogo in cui vorrei rinascere, un solo nome col quale vorrei essere chiamato: questo luogo è il mio nome. Questo nome è Marco: mi sembra perfetto per abitarci tutta la vita.



Col mio nome fu amore a prima vista per un esercizio affidatomi a scuola, in terza elementare: “Chiedete a mamma e papà perché, quando siete nati, hanno deciso di chiamarvi con il vostro nome”. Quell’esercitazione fu una sorta di annunciazione, per il bambino che ero: fino ad allora, mai avevo pensato che nel mio nome fosse nascosto un segreto d’andare a scoprire. Quella sera, dopo cena, lo chiesi a mamma e papà: “Posso farvi una domanda? Perché mi avete messo nome Marco?”. Rispose mamma, la memoria affettiva di casa. Rispose con gli occhi lucidi prima che con le parole: capii, scrutando quel luccichìo, che la mia domanda aveva intercettato la corda più delicata del suo cuore. Papà, lì vicino, lasciò a lei la meraviglia del racconto: “A sedici anni ho letto un racconto intitolato Dagli Appennini alle Ande (è uno dei dodici racconti di Cuore di Edmondo De Amicis, ndr). Il protagonista è Marco”.



E la mamma scoppia a piangere. “Vai avanti tu, che io mi metto sempre a piangere” dice al papà. Che, avvicinandosela, inizia a raccontarmi la storia di questo bambino che, da Genova, parte in nave per Buenos Aires per raggiungere la sua mamma, emigrata per lavoro. È ammalata, rifiuta di farsi curare. Marco, dopo mille vicissitudini, arriva fino alle Ande pur di cercarla tra le famiglie presso cui la mamma fa servizio. È stanco, affamato, senza soldi: è piccolo. Una carovana gli da un passaggio, poi lo lascia a metà strada: per giorni cammina da solo, finché incontra la mamma, peggiorata assai. Quando vede che Marco è arrivato fin laggiù per cercarla, si emoziona al punto da accettare l’operazione: guarirà. “L’ho letto quando avevo sedici anni – riprende la mamma –. E quel giorno mi sono detta: se avrò la grazia di diventare mamma e sarà un maschio, lo chiamerò Marco”. Quand’incontro qualcuno, ancora oggi rilancio la sfida della mia maestra: “Perché ti chiami così? (boh!) Chiedilo alla mamma e al papà, stasera”.

Questa gran donna ch’è mia madre è diventata mamma a trentatré anni, il mio papà ne aveva uno in più. Da quel racconto, però, scoprii un tesoro unico al mondo: quand’è diventata mamma, eran già diciassette anni che lei desiderava Marco, ancora prima di conoscere mio papà. Da quando lesse quel racconto, già le avevo messo in agitazione il cuore. Anche papà, finito il racconto, aveva gli occhi lucidi. Ancora oggi, quando qualcuno mi chiama per nome, mi ritrovo a viaggiare in nave “dagli Appennini alle Ande”: il mio nome mi sembra il vestito su misura, d’alta moda. E penso a tutti coloro che l’hanno indossato prima di me: Tullio Cicerone, Aurelio, Porcio Catone, Chagall, Morandi. Pantani. L’esploratore Marco Polo. Nel mio nome porto un po’ della loro vita, della loro follia: negli anni futuri, qualcuno porterà un po’ della mia. Sperando che san Marco (l’evangelista), sapendo che porto il suo nome, nel frattempo non mi chieda risarcimenti per danno d’immagine. Al suo Gesù, soprattutto.

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