Siamo ancora, nonostante tutto, un Paese civile (almeno sulla carta), figlio di quella cultura greco-romana che ci ha indiscutibilmente resi la culla partoriente della moderna civiltà occidentale. Ed è nei momenti di difficoltà, di crisi diffusa, che si vede solitamente lo spessore di un uomo. Ma anche di una nazione. Di uno Stato che, stante la contingenza pandemica in atto, ha ben altri impellenti problemi cui pensare che quello delle canzonette alla tv.
Che il ‘Festival di Sanremo’ sia un pilastro portante della cultura nazionale e del costume italiano è primato asserito e assodato. Il problema, invece, sta altrove. Va posto diversamente. E appartiene alla sfera delle questioni etiche sulle quali Rai, Governo e istituzioni sono chiamati a interrogarsi prima di tutto per principio, oltre che per dovere.
In un momento in cui ogni forma d’arte è bloccata, proibita, sospesa – come rileva giustamente anche il sagace e competente Vittorio Sgarbi -, e con lei anche qualsivoglia tipo di intrattenimento tout court, a cominciare dal più semplice (ma mai banale) aperitivo al bar con gli amici, per dirla con il buon Antonio Lubrano, giornalista e uomo di buonsenso, “la domanda sorge spontanea”: per qual motivo alla Tv pubblica dev’essere riservato un trattamento privilegiato rispetto all’intero indotto di eventi, fiere e manifestazioni dell’intero territorio nazionale che giace invece impaludato senza possibilità alcuna di sapere se e quando mai ripartirà? E, soprattutto, come?
Con un Premier Conte che già un mese prima del Santo Natale invita alla sobrietà di ristretti e frugali pasti domestici, con che faccia pensiamo a Sanremo 2021 ignorando quelle centinaia di migliaia di artisti (discoteche, pianobar, dj, cabarettisti, babbo natali, intrattenitori e animatori) per i quali le festività dicembrine rappresentano, quest’anno più che mai, una irrinunciabile quattordicesima che loro malgrado sfumerà come tutto il resto?
Mi domando con quale ammissibile criterio l’Amministratore Delegato Fabrizio Salini, il Direttore di Raiuno Stefano Colella, il valente Amadeus che pur gode di tutta la mia più che incommensurabile stima possono pensare di andare in onda con il carrozzone festivaliero mentre in Italia la musica, la cultura, i concerti muoiono? O, forse, languono soltanto più in attesa del fatale colpo di grazia? Perdono fatturato le imprese, se ne faranno anche una ragione a Viale Mazzini, che a differenza dei privati gode dello status di azienda pubblica.
Perché, come ha scritto anche l’autorevole collega critico e musicale Lele Boccardo nel marzo scorso allo scoppio del primo lockdown, “Cristo si è fermato a Sanremo”. E l’amara verità è che è ancora ben fermo e piantato lì. Nel senso che la kermesse canora ligure targata 2020 è stato, di fatto, l’ultimo evento musicale ordinario in un tempo storico straordinario.
Ma innanzi alla realtà di asfittiche e tremebonde partite Iva, lavoratori stagionali dello spettacolo e non, precari dell’entertainment che ridono per non piangere innanzi all’inconsistenza massiva e fattiva delle elemosine spacciate per ‘ristori’ nei vari DPCM emanati, con la Liguria che come qualunque altra regione può sempre in potenza diventare ‘Zona Rossa’, anche il Festival dovrebbe farsi da parte. Quantomeno per solidarietà, buongusto e delicatezza verso chi di musica non vive né vivrà, forse mai più, senza per forza dover essere famoso.
Altresì per rispetto a tutti quei grandi artisti italiani che resterebbero al di fuori della consueta rosa dei graziati Big in gara, per i quali quest’anno la partecipazione al Festival suonerebbe come un atto di grave e intollerabile ingiustizia verso tutti i colleghi che non hanno fatto un solo concerto nel 2020. Sarebbe come vedere alla tv cinquanta favoriti sul palco a cantare, ballare e festeggiare mentre fuori tutto tace. Tutto è spento. Inoltre, a prendere atto di quel che si vocifera nell’ambiente, aleggia sugli organizzatori del Festival uno spettro plausibile fatto di ritardi, assenza di belle canzoni, e tantissimi nodi da sciogliere. Il tempo, intanto, passa e nessuno mette un punto fermo, Comune di Sanremo incluso. E se, come dice a ragion veduta l’arguto e attento Paolo Del Debbio, l’incertezza è il male peggiore, la sola certezza possibile innanzi a contingenze di forza maggiore sta nel rimanere fermi, in attesa di tempi e prospettive realmente migliori. E, soprattutto, fattibili. Realizzabili.
Evitando così favoritismi, privilegi e situazioni imbarazzanti che potrebbero solo alimentare ulteriore malcontento, tensione sociale, sfiducia nelle istituzioni e inaccettabili disuguaglianze. Ma ve li vedete hotel, bar, negozi e ristoranti liguri che incassano soldoni durante Sanremo con tutti gli altri a bocca asciutta? Se si soffre, si soffre tutti. Idem quando c’è da gioire. Musica inclusa. Con buona pace di Sanremo. Arrivederci (speriamo!) al 2022.