In fondo ogni edizione del Festival di Sanremo è uguale a quelle che l’anno preceduta. È un rito che si ripete. Serate lunghissime per dare spazio a una quantità impressionante di spot pagati a caro prezzo. Del resto è l’evento clou della stagione Rai: se fai ascolti e budget sei a posto fino all’edizione successiva.
Il Festival è un immenso minestrone che intercetta tutto. C’è posto per la pace nel mondo (non è un’esclusiva delle partecipanti a Miss Italia), le canzoni, i figli (soprattutto quelli di Tizio e Caio), le proteste dei trattori, gli ospiti internazionali, i monologhi un tanto al chilo, i morti sul lavoro. Eppoi i ricordi di pandemia, i principi montecarlesi, le bande dell’esercito, gli abiti classici e psichedelici che ti chiedi se anche quella è la tanto decantata moda italiana…
Sanremo propone una sequenza infinita di cose scollegate, colpi di scena ampiamente preannunciati e dunque attesi da tutti. Non c’è un prima e un dopo: è tutto un eterno presente che si consuma subito e poi si passa all’altro. È lo show assoluto che può esistere (ed è sopportabile) solo cinque giorni. È un bellissimo spettacolo nazional-popolare che sopravvive nonostante la crisi sociale, economica e politica che attraversa il Paese.
Ad affollare il teatro Ariston (che quando ci entri vedi quanto è piccolo) ci sono soprattutto dirigenti Rai e loro parenti, amministratori delegati delle aziende inserzioniste, mamme e papà di cantanti, mogli di presentatori, discografici, consulenti artistici, qualche religioso, politici nazionali e locali, fidanzate (anche ex vanno bene). Un po’ come allo stadio, dove sky box e poltroncine sono stabilmente affittati dalle aziende per invitare (e ingraziarsi) i loro clienti. Per trovare una persona normale devi salire in piccionaia, dove però il fanatismo sanremese è più stipato, rumoroso, sudato. Decisamente più proletario rispetto all’élite che siede in platea.
Anche in questo Sanremo è sempre Sanremo.
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