Il Festival di Spoleto (si chiama ancora “dei due mondi” ma la partecipazione della comunità artistico-culturale americana è da almeno tre lustri inesistente) ha compiuto 64 anni; ha superato, per così dire, la “quota cento” di salviniana memoria per poter andare dignitosamente in pensione. Da diversi anni ha difficoltà non finanziarie (come ai tempi in cui Alberto Arbasino vi ambientava alcuni capitoli di Fratelli d’Italia) ma di collocazione nel panorama dei festival estivi italiani ed europeo.
E’ un festival multidisciplinare, come quello di Salisburgo, ma in Italia è il Ravenna Festival con due ricche sessioni (estiva ed autunnale) che è considerato il partner di quello austriaco. Nella stupenda Spoleto, c’è un festival autunnale: quello del Teatro Lirico Sperimentale. Da decenni le proposte di una “federazione” tra le due istituzioni, mantenendo direzioni artistiche ben distinte ma con coordinamento di attività ed alcune funzioni in comune (amministrazione, comunicazione) cadono nel vuoto. Due anni fa ho scritto un breve saggio in materia su “Nuova Antologia”.
A queste determinanti di lungo periodo si aggiungono quella causate dalla pandemia. Il festival ha una nuova direzione artistica. Il pensionamento o meno dipende dalla rotta che tale direzione artistica prenderà. Questa edizione ha una programmazione in gran parte determinata dall’emergenza sanitaria: quindi, molta musica (dalla classica alla contemporanea, al pop, ma non opere), balletto moderno (con musica su nastro registrato), prosa. Senza quasi apporto dal “mondo giovane americano” che – vale la pena ricordarlo – prima della pandemia ha tenuto, quasi nello stesso periodo, un festival nella vicina Arezzo (ricordo una mirabile Incoronazione di Poppea) quasi snobbando la cittadina umbra. E’ auspicabile che, superata la pandemia, si ristabiliscano le collaborazioni con i giovani festival americani (non necessariamente Tanglewood ma esperienze come Annandale-upon-Hudson o Sahvanna) per dare una caratteristica originale, e legata alle origini, alle due settimane estive spoletine.
I festival devono avere originalità, con esecuzioni rare, prime esecuzioni se non mondiali almeno nazionali e simili. Chi segue queste cronache sa che a Ravenna in due giorni e mezzo, grazie all’efficiente servizio stampa (ed alla Signora Mazzavilanni Muti) ho seguito, in due giorni e mezzo, cinque spettacoli tra cui due prime nazionali ed una rarità. A Spoleto, in due giorni il concerto inaugurale ed un concerto da camera.
Comincio dal secondo, anche se eseguito di fronte a meno di venti persone (i posti autorizzati erano 40) e senza che ci fosse un programma di sala. Strumentisti della Budapest Festival Orchestra presentavano un’antologia (quattro brani) di musica poco nota di quello che si chiama “il Novecento Storico”, un evento che, a mio giudizio, avrebbe meritato maggiore attenzione proprio in quanto “da festival”. La mancanza di note di sala mi è parsa un segno di poco rispetto nei confronti degli spettatori e soprattutto degli artisti.
Nella piccola Chiesa di Sant’Agata, il concerto ha preso avvio con il Duo Concertante di Krzysztof Penderecki; composta nel 2010, quindi un’opera tarda del compositore polacco, dura sei minuti. E’ un dialogo molto intenso tra violino e contrabasso di cui Märia Gäl Tomäsi e Zsolt Fejérväri hanno sottolineato la drammaticità. Reinhold Glière, nato in Ucraina da genitori tedeschi e polacchi (e con ascendenze belghe) è noto soprattutto per le sue monumentali opere e balletti che gli valsero vari Premi Stalin e medaglie dell’ordine di Lenin; gli otto brevissimi brani eseguiti da Märia Gäl Tomäsi e da Gabriella Liptai appartengono al periodo precedente la rivoluzione russa: è un delizioso “duetto” (come intitolato dall’autore, a differenza del titolo attribuitogli in locandina) del 1909 sfumato e di gusto mittle-europeo. Avrebbe meritato maggiore attenzione anche perché le edizioni discografiche sono pochissime.
Altra rarità è la “sonata in la minore” del belga Ysaÿe, in cui emerge ciò che viene chiamato il “rubato” di Ysaÿe, una caratteristica del compositore: ogni volta che “rubava” tempo da una nota, lo assegnava ad un’altra in un posto diverso, permettendo così al suo accompagnamento di mantenere il tempo anche sul suo canto reso più libero. Questo tipo di “rubato” segue la descrizione data da Chopin ma di tutti gli esecutori Ysaÿe, è stato il primo, e l’unico, a metterlo realmente in pratica. Un esercizio di virtuosismo da parte dei due violinisti (Janos Plitz e Eszter Lestäk Bedő). Elegante e raffinata, infine, la sonata per flauto (Gabrielle Pivin), viola (Gäbor Sipos) e arpa (Agnès Polőnyi), Applausi sinceri dai pochi convenuti. Un vero concerto da festival, ma così poco considerato che ci sono voluti tre giorni di preghiere per avere foto.
Ha avuto grande richiamo sulla stampa il concerto inaugurale in Piazza Duomo, con un programma di musica francese del Novecento eseguito dalla Budapest Festival Orchestra diretta da Iván Fischer, il quale, dopo i calorosi applausi del pubblico, orchestra e maestro concertatore hanno offerto, come omaggio all’Italia ed alla città di Spoleto, la sinfonia della rossiniana Italiana in Algeri. Una buona idea è stata quella di fare iniziare il concerto al crepuscolo, senza attendere la notte, e di rinunciare alla consueta “conchiglia orchestrale” in modo la magnifica facciata del Duomo potesse essere il palcoscenico del concerto, risplendendo ancora di più grazie ad abili giochi di luce.
Il programma include musica della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento imperniata su due esponenti di quel “Gruppo dei Sei”, che intendevano innovare la scena musicale francese (Milhaud e Ravel) e dell’ ”eretico” e più anziano Satie eletto a loro patroni. Satie, per quanto apprezzato nel mondo culturale e musicale francese, rimase in gran misura una figura a sé di autodidatta e precursore di sviluppi musicali di anni successivi del Novecento storico.
Non entro, in questa sede, nei dettagli. La Budapest Festival Orchestra è una formazione smagliante di cui ho recensito su questa testata esecuzioni nella capitale magiara, a Salisburgo, a Milano, a Ravenna, a Roma ed altrove. Come il Figaro mozartiano, più nol dico.