Il Festival di Venezia apre (in me) ogni volta la riflessione sul cinema, sul cinema d’autore, sulla critica ideologica e su cosa chiediamo oggi al cinema.
Da sempre, nell’arte, sembra esistere quel muro invisibile che separa l’opera autoriale, spesso per pochi, e l’opera pop, per molti o per tutti. Anche nel cinema, (come nell’arte, nella letteratura, nella musica e così via, perfino nella pubblicità), all’ombra di questi due emisferi vive la folta fauna della critica cinematografica che, se pascola nel mondo dei pochi, gode per ogni scena silenziosa che si prolunga per oltre due minuti, gode per le incomprensibili simbologie di matrice intellettuale, gode per tutte quelle storie che non hanno storia, dove non succede nulla di nulla. Gode quando l’orologio fa oltre tre giri di quadrante. Gode anche per il fatto di far parte di questo emisfero, e di vivere il prestigioso privilegio di capire questi autori. Gode infine di poter definire sublime, cioè, che in realtà, spesso, è semplicemente mediocre. “Poveri loro altri, gente che non capisce”.
Oltre il muro c’è la critica senza distintivo. Quella volgare, caciottara, di bocca buona. Quella che vuole ridere, non pensare a nulla e che vuole il lieto fine. Quella che misura la qualità con la quantità. Quella che conta gli incassi. Quella che “il pubblico ha sempre ragione”. Oppure quella più giovane e moderna, dei sedicenti esperti da social media o degli influencer fuori tema, che visto che hanno i numeri possono pisciare fuori dal vaso come e quando vogliono.
Qui a Venezia ruminano entrambi i mondi anche se, ufficialmente, esiste solo la prima categoria. Ci sono film rigorosamente d’autore (e spesso ce ne sono davvero). E ci sono, nella selezione autoriale dal 2012 a cura di Alberto Barbera, c’è sempre una necessaria quota di dolore, una di noia profonda e un’ultima quota riservata d’ufficio al cinema italiano che spesso puzza infinitamente di raccomandazione.
Ad esempio quest’anno, tra le quote “necessarie”, si è visto April (terribilmente d’autore: 134’ di silenzio), Stranger eyes (definito hitchcockiano senza thriller, meravigliosamente sonnolento), Iddu, del gotha cinematografico italiano.
Le concessioni al pop sono relegate solitamente nel limbo dei film di apertura e di chiusura e nell’universo superegoico delle grandi Star, che fanno lo show, indipendentemente dai loro film.
Dopo ogni giorno di proiezione, qui a Venezia viene distribuito il bollettino della Mostra, stampato di notte e firmato dallo storico Ciak, che raccoglie il voto dei Titolati (le prestigiose firme della carta stampata italiana e straniera) che definisce la classifica di gradimento aureo. Cioè quello degli intelligenti.
Tra i Titolati, troppo spesso a mio parere, risplende di luce propria e di pavido candore il cosiddetto voto ideologico o generazionale. Cultura sinistroide: 5 stelle. Regista over 80: 5 stelle. Produzione che conta: 5 stelle. Quei film promossi con aiutino in sala diventeranno spesso sonori flop, iconici fantasmi o cocenti delusioni: “Mi aspettavo molto di più…” che allontaneranno altre persone dal cinema.
Questo voto, quest’anno, ha salvato Guadagnino e Amelio, ad esempio.
Talvolta però, come per miracolo, dal fertile territorio cinematografico, nasce qualcosa di davvero magico, che abbatte il muro tra i due emisferi. Nasce un film che piace alla critica, piace al pubblico, piace al mercato, piace alla politica. Ed è allora che il mondo traballa. Che le tribù si disuniscono e si imbastardiscono. Che i sospetti e i telavevodetto si moltiplicano. Che le folle si accalcano. Che le critiche si inginocchiano. Che le mani si spellano.
È allora che il Cinema definisce, da solo, magicamente, cosa è veramente. Nella sua più intima essenza. Per me, in tre parole, Spettacolo di Cambiamento.
Quest’anno, dobbiamo riconoscerlo, il capolavoro assoluto non c’è stato. Fra The Brutalist, bellissimo e lunghissimo, Queer, bruttissimo e coolissimo e The room next door, dolorosissimo e autorialissimo, ha vinto quest’ultimo. Quello che io avrei premiato, per quello che conta, è il primo.
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