In concorso si è visto April, al momento sul podio delle preferenze della critica internazionale dopo Almodóvar e I’m still here. Un film tanto militante nel suo intento, quanto inaccessibile nel suo respingente sviluppo. 134’, che con gentilezza definiamo “d’autore”, che raccontano la storia di una ginecologa georgiana, in servizio all’ospedale del remoto paese in cui vive. E che nel tempo libero aiuta le donne ad abortire, salvandole da una vita indesiderata e dai soprusi maschili. Contro la legge morale e legale.



Un tema intenso, attuale, radicale che si mostra attraverso interminabili silenzi, ambientati in interminabili scenari di buio e paura con i dialoghi che si contano sulle dita di una mano. Povertà e disagio da brividi negli attimi tra un vuoto e l’altro. Mentre rischia il posto, sopraffatta dalle voci che la additano responsabile del massacro, la donna si sente un mostro, che la regista rappresenta fisicamente trasformandola in un essere antropomorfo deformato dal dolore della propria colpa. Quando uscirà nelle sale cittadine, dobbiamo dirlo, il film sarà solo per uomini e donne di grande pazienza, disponibili a subire il calvario di una storia senza storia, dove le emozioni si confondono con la noia e con il sonno.



Molto più accessibile, ma pressoché inconsistente, l’ultimo film italiano del Concorso. È Iddu, la storia romanzata del boss Matteo Messina Denaro, generosamente servita da Elio Germano (il boss) e Toni Servillo (il viscido). I due inattaccabili Comandanti del cinema italiano non bastano a trasformare questa storia di cronaca nera, vergogna e malaffare in una commediola grottesca che non graffia per nulla. Gli innumerevoli pizzini del capomafia, trovati in occasione del suo arresto, sarebbero stati un ottimo spunto di partenza per costruire mondi e storie di meschina umanità, che potessero volare alto nel mondo dei buoni e dei distratti.



Poteva essere un prezioso monito al mondo, una storia da conoscere e dimenticare, una ferita per riflettere e cambiare. O quantomeno un attimo di cinema e intrattenimento. Ma Iddu rimane piccolo piccolo, con il suo siciliano convinto, con il suo angusto orizzonte macchiettistico che è riuscito bene una volta e mezzo o poco più nella lunga storia del cinema italiano. Uno spreco di talento oppure anche un talento nello spreco, che rimane a testimonianza di un cinema italiano che ancora solido non è. E che a Venezia troppo spesso si distingue in negativo.

Nel paniere delle buone intenzioni c’è anche il documentario di Bing Wang, Youth: homecoming, acclamato regista cinese, impegnato in una trilogia sul lavoro che mortifica l’uomo. Solo due ore e mezzo (in precedenza Wang ha presentato un film di nove ore…) per raccontare, con verità e rispetto, la disarmante dignità dei giovani “schiavi” dell’industria tessile cinese. Ragazzi e ragazze, di vent’anni e poco più, mortificati dall’annientamento della loro vita. Con sogni che si estinguono troppo presto.

Un massacro di energie vitali che costruisce le fondamenta del nostro mondo globalizzato sugli standard dei diritti dei lavoratori cinesi.

Un grido silenzioso e stupendo, che Wang raccoglie rimanendo per ore, come un osservatore invisibile, davanti alle storie che non esistono di giovani che non esistono. Di nuovo un grido che vorremmo cogliere, che difficilmente arriverà in superficie, tradotto nei fatti in un altro supplizio autoriale che nessuno vedrà. Colpa dell’incomunicabilità del regista oppure del povero stupido mondo in cui viviamo?

La domanda è aperta.

Chiude le danze Kjærlighet (love) del regista norvegese Dag Johan Haugerud. Un trattato sociologico nel linguaggio della vita reale sull’amore, la seduzione e il sesso ai tempi di Tinder e Grindr. Un incrocio di storie timbrate di immorale, secondo la visione del mondo novecentesca, che prova a farsi spazio nei giardini dell’ordinario, dell’accettabile e del desiderabile. Alle nonne non piacerà (nemmeno a mamme e papà), ma la libertà sembra davvero troppo bella per poterla sprecare. Incontri casuali, tradimenti, sesso improvvisato raccontato a parole, spiegato facile facile perfino per non vedenti. Direi illuminante, e diversamente morale.

Fuori concorso, da spelarsi le mani, l’ironia grottesca quasi slapstick di Takeshi Gitano, padrone di casa a Venezia, con il suo ultimo lavoro di 61 minuti, Broken race, parodia del gangster movie e dei suoi spin off. Breve ed esilarante, per chi apprezza quel tipo di ironia giapponese, ai confini del puerile. Per la cronaca, la sala ha apprezzato, soffocando fragorosamente.

Vi aspetto domenica, con le mie pagelle.

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