Proseguono le proiezioni a Venezia mentre inizia la seconda settimana di programmazione. E prosegue con una doppietta tra le più interessanti viste finora.

Vermiglio, il secondo film italiano in concorso, ci racconta la vita immobile di un minuscolo paese sulle montagne trentine. È l’ultimo anno della Seconda guerra mondiale, ma a Vermiglio il tempo è fermo. La guerra si legge sui giornali mentre la vita scorre quasi pacifica, lontano dal mondo, se non fosse per l’arrivo di un soldato italiano. Un po’ reduce, un po’ disertore, un po’ straniero per la curiosa diffidenza con cui viene accolto in paese. Al centro c’è la storia di una grande famiglia della tradizione italiana. Un padre severo, maestro di paese, guida morale e fedele interprete della verità. Una madre premurosa, attenta ai bisogni di tutti i numerosi figli che sta crescendo, e un altro in arrivo. E una tribù di ragazzine e ragazzini che vivono la giornata tra la scuola con il padre, i compiti, la vita tra fratelli e l’incontro scoperta con gli altri.



Maura Delpero, alla sua seconda regia di un lungometraggio, omaggia il padre e la sua storia d’origine. Un omaggio che è molto più di un vivido affresco del quotidiano. È una lezione verista su di un mondo che pare lontanissimo, ma che è materia dalla quale siamo tutti nati. Un patriarcato archetipico, oggi abominevole e moralista, che ha costruito necessari percorsi di sopravvivenza in un mondo che non poteva permettersi il lusso della libertà. Una tavola di regole per crescere che stabiliva, e stabilisce, cosa è giusto e sbagliato, normale e anormale, utile e inutile, merito o vergogna. Vermiglio però semplicemente racconta, affettuosamente, questo mondo arcaico che sopravvive nell’ignoranza. E lo fa raccontare meravigliosamente ai ragazzini che sottovoce, la sera, stipati nei letti, si fanno domande che dicono più di qualunque altra cosa. È un film piuttosto lento, che scorre al ritmo del silenzio e della montagna, che stupisce soprattutto per la naturalezza di questi giovani interpreti che sembrano usciti da una serata di premi Oscar. È un film che spiega, meglio di un trattato sociologico, la storia novecentesca di molte famiglie italiane e della loro resistenza al cambiamento, che è vita.



Il secondo film, The room next door, ci parla invece di morte e lo firma l’iconico Pedro Almodóvar. Il quasi (come sottolinea più volte in conferenza stampa) settantacinquenne regista si misura per la prima volta con un film in inglese, perdendo gran parte delle sue atmosfere così speciali, ma senza perdere quella straordinaria capacità di muovere gli attori e il loro mondo emotivo che è firma inconfondibile dei suoi lavori. Sembra facile, questa volta, con al fianco Tilda Swinton e Julianne Moore, due capolavori di bravura.

Ingrid e Martha erano amiche da giovani. Si ritrovano per caso, ormai sessantenni, in ospedale, dove Ingrid (Moore) si precipita per salutare l’amica, colpita da un male incurabile. Vale la pena vivere una vita che si preannuncia una lenta agonia di dolore? È una domanda che con sempre più rumore borbotta nelle democrazie occidentali, che cercano risposte nel principio di autodeterminazione, demoniaco nemico delle fedi che affidano a Dio, e ai suoi disegni, la proprietà dell’uomo.



Per Ingrid la risposta più naturale sarà quella di morire, per scelta, prima che il nulla si impossessi del corpo. A starle accanto ci sarà Martha.

Diversamente dai film a tema, che spesso suonano banali e didascalici, La stanza accanto non vuole dimostrare nulla. Ma solo racconta. Il prima, il dopo. La scelta. Le emozioni. Le confidenze. Le paure. La vita che scorre nei ricordi. I rimpianti. La voglia di vivere. La passione per le piccole cose. La dignità umana. La meschinità disumana. È un film emozionante, intimo. Una storia di sensibile amicizia, di tenera e sincera vicinanza che rivela l’amore profondo di cui sono capaci gli esseri umani, tutti tanto piccoli di fronte alla morte. Ventiquattresima lezione di libertà, Mr. Almodóvar.

Tra le sale e salette marginali, che scorrono al tempo della Mostra del Cinema, ho poi scoperto, con Mistress dispeller, film documentario della regista cinese Elizabeth Lo, che in Cina esiste l’allontanatrice di amanti, una figura professionale che si insinua nelle dinamiche della coppia in promessa, per ribaltare la sorte degli amori più effimeri. Lo fa con mestiere, con costanza, di nascosto, corrodendo certezze e insinuando dubbi. Un fine lavoro di demolizione dell’amore vacuo che, nel film, interpretato dalle vere protagoniste del triangolo amoroso, ha avuto miracolosamente successo. Perfido quanto geniale, cari cinesi. Vi stimo.

Nel frattempo, sotto uno scrosciare d’applausi che ribalta la Laguna, Peter Weir riceve il Leone d’Oro alla carriera. Solo 13 film, alcuni di questi davvero immortali.

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