In questa particolare edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia celebriamo i sessant’anni dalla presentazione di Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, che ebbe il premio speciale della Giuria e vinse il Leone d’Argento per la regia. Melodramma di forti contrasti in bilico tra storia e mito, questo ottavo lungometraggio del regista milanese è uno dei migliori della sua carriera, capolavoro indiscusso del cinema italiano di ogni epoca. Sceneggiato dal regista con Vasco Pratolini, Suso Cecchi D’Amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa ed Enrico Medioli a partire dalla raccolta di racconti Il Ponte della Ghisolfa (1958) di Giovanni Testori, il film dimostra in tutta la sua generosità narrativa influenze letterarie forti, rintracciabili soprattutto nella poetica di Thomas Mann e Fedor Dostoevskij, dai quali i colti sceneggiatori citati traggono la caratterizzazione della crisi dell’istituzione familiare e dell’insanabile contrasto tra Bene e Male.
Sul versante “Storia”, la vicenda del film tocca da vicino un tema di drammatica attualità per l’epoca, quello della migrazione interna al nostro Paese. Visconti, milanese di nobile ascendenza e comunista dichiarato, si adopera di guardare la sua città con gli occhi dei migranti dal Sud. Vi trova ostilità, freddezza e repulsione, sentimenti che mette in scena con maestria (notevole il bianco e nero del direttore della fotografia Rotunno) in un’ambientazione a tratti tragica e decadente. Il confronto-scontro tra meridione povero e civiltà industriale del Nord, incarnato dai vari personaggi, sfocia allora in un inevitabile out-out che traccia il destino dei medesimi: o l’integrazione nella fabbrica con la coscienza del proprio ruolo proletario oppure il degrado dell’emarginazione.
Sul versante “Mito”, invece, è la vicenda stessa ad assumere a tratti una caratterizzazione epica. I vari personaggi sono anche l’incarnazione dei miti eterni delle tragedie greche, così come rivisitati e attualizzati dal melodramma nostrano, secondo costume stilistico del regista. In siffatto contesto bene si inserisce la scena della morte di Nadia all’Idroscalo, una delle più celebri e toccanti di tutto il cinema italiano.
Ma la tematica principale, l’idea forte che si ritrova lungo tutta la filmografia del regista, qui mantenuta carsica rispetto alla superficie narrativa più immediata, è quella della dissoluzione della famiglia nel contesto della società piccolo borghese. Emblematica in questo senso la sottotrama dell’amore contrastato di Simone (Renato Salvatori) per Nadia (Annie Girardot), amata anche da Rocco (Alain Delon), che concludendosi in un omicidio denunciato dal fratello minore dei due, Ciro (Max Cartier), finisce per vanificare gli sforzi della madre dei quattro fratelli (Katina Paxinou) profusi per tenere unita la famiglia. In tutto ciò Visconti, secondo una scelta estetica ormai consolidata nel suo cinema, mantiene la narrazione a un livello più prossimo alla descrizione dei travagli – sentimentali e morali – dei protagonisti piuttosto che portarla a esposizioni di tesi assolutorie più o meno moraleggianti. La forza del film, come una sorta di ombra lunga del neorealismo, sta allora nello spessore complessivo dei personaggi, tutti perfettamente caratterizzati e armonizzati tra loro, piuttosto che nella (se pur presente) valenza sociale del racconto.
La produzione italo-francese consentì a Visconti l’impiego di un cast internazionale di prim’ordine, in cui segnaliamo Alain Delon, in uno dei primi ruoli importanti della carriera, Renato Salvatori, Annie Girardot, Claudia Cardinale e Paolo Stoppa. Piccole parti per le giovanissime Adriana Asti e Claudia Mori, due impiegate della stireria.
Il film, poco gradito alla politica di allora in quanto considerato veicolo di tematiche scomode mostrate con eccessivo vigore realistico, venne anche pesantemente osteggiato dalla censura. La magistratura milanese ordinò l’oscuramento di quindici minuti, quelli con la scena dello stupro di Nadia. Dopo alterne vicende giudiziarie, dalle quali Visconti usci completamente assolto nel 1966, rimase per tanti anni il divieto di visione ai minori di 18 anni, e nel 1979 il film venne ulteriormente tagliato per il passaggio in tv. Soltanto nel 2015, al Festival di Cannes, è stata presentata una versione restaurata integrale priva di tagli. Numerosi, d’altro canto, i riconoscimenti ricevuti: oltre ai premi veneziani già ricordati, il film ebbe tre Nastri d’Argento nell’edizione del 1961: regia, sceneggiatura e fotografia.
La celebrità e l’importanza di un film come Rocco e i suoi fratelli si misura anche dalla sua circolazione sotto altre forme, anche più volte a diversi livelli, nei circuiti culturali-mediatici affini e/o paralleli, e segnatamente per la comparsa di due parodie dichiarate, una di Giorgio Simonelli (Rocco e le sorelle, 1961) e l’altra di Marino Girolami con l’ineffabile Walter Chiari, qui anche in veste di autore (Walter e i suoi cugini, 1961).
Con Rocco e i suoi fratelli, dunque, il Festival di Venezia ricorda oggi una pietra miliare della nostra cinematografia, figlio di un’epoca autoriale e produttiva che oggi, nel mondo dell’immagine inflazionata e banale, un po’ rimpiangiamo.