Bardo
“Bardo: falsa cronaca di alcune verità”, è l’attesissimo film di Inarritu, chiuso in un lungo silenzio di sette anni, dopo l’Oscar per “Revenant”. Una commedia surreale e drammatica al tempo stesso. Un film che è agli antipodi del suo ultimo lavoro. Una prova difficile, per il regista e per il pubblico, che racconta come fosse un lungo e incontrollato flusso di pensiero, gli infiniti percorsi dell’immaginazione.
Sullo sfondo la vera storia del regista che, anni fa, ha lasciato il Messico per scoprire l’America e le sue opportunità, fino a diventare uno dei più grandi cineasti dell’epoca contemporanea.
Nel film, il protagonista è un regista e documentarista, interpretato da Daniel Giménez Cacho. Ha una moglie, due figli, una carriera di successo e un premio da ritirare, in America, concesso per la prima volta a un giornalista messicano.
Inarritu racconta, con la meravigliosa estetica che lo contraddistingue, le storie della sua mente, reinterpretate dalla memoria. Un processo di dissolvenza che unisce verità e finzione, dando nuova vita e realtà al passato. Nel farlo, sceglie un registro grottesco, surreale, quasi onirico. Un sogno di tre ore nel quale la realtà si intreccia con la fantasia, con le regole dei sogni, senza gravità, poco coerenti, impalpabili ma emozionanti.
C’è molto di autobiografico in questo film che va goduto come fosse un quadro, lasciandosi immergere emotivamente rinunciando all’impossibile interpretazione dell’io profondo, che toglie e aggiunge sensazioni a suo piacimento.
Per Inarritu è stato catartico occuparsi del suo passato, lasciando spazio all’ingombrante assenza del paese che gli ha dato i natali. Per lo spettatore è stato spiazzante vagare nel buio confuso degli intimi tormenti del regista, alleggeriti dalla fantasia e dal successo ottenuto nella sua sfida americana.
Nel fluire della coscienza, troviamo anche diversi temi rilevanti legati ai dolori della vita (come la perdita di un figlio), al decadimento sociale, alla fatica di emigrare e ai pregiudizi di chi vive in un paese che non è il suo, all’ego di un uomo di successo, ai rapporti con i figli. Una moltitudine di pezzi di una grande confessione che non trova pieno compimento.
“Bardo” è un viaggio emotivo immaginifico, un assemblato di scene visivamente iconiche che compongono un film a tratti memorabile, a tratti prolisso, con una trama tanto semplice quanto difficile da comporre, come qualunque coscienza che prova a fare i conti con se stessa.
Bones and all
La rockstar di questo festival è Timothée Chalamet. Alla conferenza stampa in short, è accolto con scoscianti applausi e, sul red carpet, da scene di isteria collettiva. Con un vestito rosso, improbabile, con la schiena di fuori, saluta con generosità tutto il pubblico di giovani e meno giovani che si accalca fin dalle prime ore della mattina per poi entrare in sala Grande, avvolto da un pubblico che si moltiplica ad ogni istante. Con lui il cast di “Bones and All”, e il regista, Luca Guadagnino, che l’ha scoperto qualche anno fa, con “Chiamami col tuo nome”.
A Venezia presentano un nuovo horror dalle tinte romantiche. È la storia di due ragazzi che si “fiutano” per caso, ai margini di una strada notturna, e si riconoscono parte della stessa tribù di appartenenza, quella di quegli esseri umani che non resistono a nutrirsi di altri esseri umani. Stiamo parlando di cannibalismo, trasformato in una sorta di disagio personale. Una necessità di sopravvivenza, un difetto da nascondere, una tentazione da tenere a bada.
In giro per l’America, i due giovani (assieme a Chalamet la giovane e sensuale Taylor Russell) si nutrono di corpi, di storie e di confidenze, divenendo uno importante per l’altra. Insieme cercano un equilibrio impossibile immaginando un futuro che si dibatte tra l’uccidere qualche innocente o farla finita, in un mondo che non vuole e non può che allontanarli. Una storia che è metafora della diversità, di chi non trova se stesso, di chi si sente lontano da tutti, di chi si sente colpevole per qualcosa con cui si è trovato a convivere.
Guadagnino affronta ancora una volta, dopo “Suspiria”, una storia sanguinolenta senza nascondere l’orrore del pasto umano. Ci mette dei contenuti che, nel viaggio on the road, spesso prendono il sopravvento, divenendo più importanti dell’orrore stesso che per molti, in platea, è disturbante.
Tra gli attori, oltre a Taylor Russel e al fascino vagabondo di Timothée Chalamet, (col ciuffo colorato, i jeans strappati e il corpo rachitico spesso esibito) emerge anche la sommessa figura di Sullyvan, interpretato da Mark Rylance (reso celebre, nel 2015, grazie al “Il ponte delle spie”). Un “buon” cannibale dall’animo nobile, almeno a quanto pare dai suoi modi così gentili.
Il film, spiazzante e insolito, ha comunque un suo equilibrio seppure stenti a soddisfare appieno gli amanti del genere horror così come i più esigenti appassionati del cinema autoriale. Andatelo a vedere, con il beneficio del dubbio.
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