Festival di Venezia 2022: Il signore delle formiche
C’è un grande valore, innegabile, che appartiene a questo film. Ed è quello di avere portato sullo schermo una significativa storia del passato, fonte di un dolore profondo per chi l’ha vissuta, e frutto di una visione del mondo retrograda, ma quanto mai presente in qualche polverosa mente medievale (che merita, a fatica, il mio rispetto).
È la storia vera di Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio), poeta, professore, studioso di formiche e del loro comportamento. Braibanti fu processato con l’accusa di plagio ai danni di un ragazzo di ventitré anni (interpretato dal giovane e promettente Leonardo Maltese), con cui ebbe rapporti sessuali. È la storia di una relazione, di un processo e di un contesto sociale oscurantista, fascista, malato di cattolicesimo bigotto e perbenismo. “Se sei omosessuale, o ti curi o ti spari” si sente nel film.
L’accusa di plagio fu l’escamotage per processare l’omosessualità di Braibanti e curare l’incurabile malattia di Giovanni, ritenuta una devianza patologica.
La storia del Novecento è costellata di insanabili orrori legati alla paura della diversità e purtroppo ancora oggi, nel 2022, ci sono ancora sacche di demenza o semplicemente persone razziste che considerano sbagliato ciò che non segue la morale dei “normali” e che trasformano colpevolmente la differenza in vergogna.
I meriti del film, a mio parere, si fermano qui, nonostante l’entusiasmo di molta critica. Dentro a un contorno che si accoda fin troppo agli stereotipi, i personaggi non brillano per realismo, spessore ed empatia. L’interpretazione (che troppo spesso si trasforma in recita) rende la vicenda poco credibile come la stessa relazione tra l’uomo delle formiche e il suo discepolo.
Solo durante il processo il film si accende di rabbia ed emozioni. Cresce l’intensità, mentre gli interpreti, pronunciando le toccanti parole contenute nei verbali del processo, riescono a dare la miglior prova del proprio talento.
Un film necessario, utile e rispettoso dei fatti, che piacerà e che gongolerà per la morbosa attenzione giornalistica e “social” sul tema. Che se ne parli. Ancora, e ancora di più. Affinché prima o poi non se ne parli più, quando finalmente la coscienza collettiva smetterà di considerare problema quello che problema non è.
Festival di Venezia 2022: The son
A Venezia è arrivato il momento delle lacrime. Giornata commovente con la proiezione di “The Son”, diretto da Florian Zeller (regista di “The Father”, premio Oscar per la stessa sceneggiatura non originale del film). Cast da urlo: Hugh Jackman, Laura Dern (entrambi poco cordiali in sala stampa nel rifiutare qualunque autografo, mascherati dietro a un poco spontaneo sorriso), Anthony Hopkins (presente nel film con una parte breve, sempre impeccabile) e il giovane Zen McGrath (al suo terzo film), che brilla di luce propria.
Al centro della storia il divorzio dei suoi genitori e il conseguente impatto sull’equilibrio psicologico del figlio. Non è un film sul disagio adolescenziale, sui litigi familiari né sulla devianza giovanile. È un film sulla salute mentale, su quel profondo malessere esistenziale che non solo rende difficile la vita, ma che spinge chi lo prova a desiderare la morte. Un tema complicato e doloroso, quanto mai attuale proprio negli anni della pandemia che ha prodotto disagio, isolamento forzato, solitudine tra le mura domestiche, paura degli altri e di se stessi, moltiplicando ovunque nel mondo la sofferenza psichica.
Questa fragilità emerge, nel film, come un grido disperato dalle parole, ben poche, del giovane Nicholas, appena diciassettenne, che ogni volta che parla vomita dolore, denuncia solitudine e supplica l’aiuto dei suoi impotenti genitori. Non ce la fa, e non sa perché. Cerca colpe, colpevoli, appigli e vie d’uscita. Ma il male è più grande di lui e della sua disperazione.
Zen, ventenne nella vita, dà corpo a questa incontrollabile devastazione dell’anima accartocciando il viso, versando lacrime che trascinano lo spettatore nel desiderio di abbracciarlo e di dargli quella sicurezza che non riesce a trovare in chi prova a stargli accanto.
“The Son” è un bel film. Coinvolgente nel profondo, con il merito indiscusso di non raccontare (come spesso accade in questo genere di film “telefonati”) la colpevole negligenza dei genitori, quanto la loro relativa normalità, il loro impegno, il loro affetto, la loro quotidiana fatica. Un’opera che è un prezioso campanello d’allarme, che registra il male di vivere dell’età contemporanea. Quel dolore di chi, in mezzo alle sempre più numerose famiglie spezzate, non riesce proprio a farcela da solo, naufrago in un mondo che fa di tutto per sottrarre certezze a chi sta solo provando ad imparare a vivere.
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