Dopo la tiepida accoglienza al film di apertura, “White noise” di Noah Baumbach, con Adam Driver (già visti insieme a Venezia con il magistrale “Storia di un matrimonio”), sbarcano in laguna le prime star di questa 79esima edizione del Festival del cinema, tra cui l’iconica e fascinosa Cate Blanchett.
Tàr
La diva australiana è la protagonista di “Tàr”, la storia di una immaginaria direttrice d’orchestra, allieva di Leonard Bernstein. Lydia Tàr, per indiscussi meriti e talento artistico, si trova a dirigere la Berlin Orchestra, prima donna in un ruolo riservato quasi esclusivamente agli uomini.
Il regista Todd Field (“In the Bedroom”) riesce a far emergere con grande forza il carisma, il rigore e la personalità di Lydia, animato dall’espressività virtuosa di Blanchett.
Nelle verbose disquisizioni sulla musica (talvolta fin troppo accademiche), che il film ci propone, impariamo a comprendere e ad apprezzare il ruolo del direttore, che non tiene semplicemente il ritmo, ma interpreta la musica, la vive, la sente, trasformandola in qualcosa di proprio, sublime espressione del proprio mondo interiore. Una ricchezza emotiva che prende forma tangibile nella furia del gesto di questa donna, volitiva e determinata, davanti a un manipolo di musicisti.
Dotata di un orecchio assoluto, Lydia assorbe ogni rumore per trasformarlo in una musica raffinata e impetuosa, che accompagna lo spettatore in questa storia di arte e passione. Grazie a Cate Blanchett, che flirta magicamente con la musica, apprezziamo tutte le sfumature e le contraddizioni di questa donna, compagna di vita del primo violino della sua orchestra, egocentrica e capricciosa, sicura e fragile al tempo stesso, fredda calcolatrice e bollente di desiderio per il talento carnale delle giovani orchestrali. Un desiderio che finirà per mettere in ombra il suo genio, demolendo inesorabilmente, colpo dopo colpo, la sua stessa carriera.
Un film da vedere, con un po’ di pazienza, che cresce man mano si racconta.
Vera
Sempre di una carriera, in questo caso mai sbocciata, ci racconta il film “Vera”, un’opera italiana firmata da Tizza Covi, che ci porta nella vita di Vera Gemma, figlia del compianto attore Giuliano Gemma. Vera soffre del suo essere figlia di “qualcuno”, condannata a faticare, giorno dopo giorno, per cercare di non rimanere “nessuno”. Vera ha fatto di tutto: oltre all’attrice, si è appassionata di musica, è stata concorrente in un reality con Carlo Conti, domatrice di tigri e leoni, ha scritto due libri.
Nel film questo disagio di Vera viene proposto e reinterpretato in una storia immaginata, nella quale la protagonista interpreta se stessa, alle prese con una vita benestante in rapida decadenza. Vera, tormentata dal suo passato, cerca di inseguire il suo ideale di bellezza “ispirato alle trans” – dice – che esprime in un volto visibilmente “ricostruito”, alla ricerca di quella bellezza che è stata quasi una necessità per la sua famiglia. Nella sua storia di finzione cinematografica, si invaghisce di uomini complicati, pronti a sfruttarla: prima un giovane regista, che vuole i suoi soldi e le sue conoscenze, poi un balordo borgataro dedito alla truffa.
La regista, alla sua terza opera, racconta con uno stile quasi documentaristico, camera alla mano, una storia di disagio ed emarginazione, allargando lo sguardo tra le vie della periferia romana dove in molti si arrangiano a vivere.
Un film convincente, una storia di strada, che sorprende in positivo per una recitazione naturale che a volte lascia emergere il grottesco di molti personaggi, tra cui quello della stessa Vera, “coatta” nel vestire e nel parlare. E un cameo, in questa storia, è riservato anche ad Asia Argento, fedele amica e confidente di Vera, nel film come nella vita.
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