Esce alla Mostra di Venezia, tra gli applausi soddisfatti del pubblico, The Brutalist, di Brady Corbet. Il titolo porta l’immaginazione verso gli universi malavitosi alla Scorsese ma, in realtà, di brutale c’è solo la durata: 3h35. Un disastro per le gambe degli spettatori, un problema per la distribuzione al cinema, una sfida per il regista e le sue capacità affabulatorie. Ma è una sfida vinta, a quanto pare, ascoltando lo scroscio convinto della sala “campione”, qui a Venezia.
Brady Corbet a sedici anni era attore nel cast di Mysterious Skin, magnetico film adolescenziale degli inizi del secolo. Poco più di dieci anni dopo Corbet presentava proprio a Venezia la sua opera prima, L’infanzia di un capo, che vinse il premio “Migliore Opera prima” e “Migliore regia” nella sezione Orizzonti.
La sua terza regia, con The Brutalist, è ammaliante così come il personaggio interpretato da Adrien Brody, tra i primi divi internazionali in Laguna.
Racconta la storia di László Toth, architetto ungherese scampato ai campi di concentramento di Buchenwald, emigrato in America nel 1947 e sopravvissuto per anni tra miseria ed espedienti, in attesa della rinascita. Brody, col suo nasone prorompente, ci regala una meravigliosa descrizione di genio, gentilezza e sregolatezza. Non finisce di ringraziare tutti quelli che lo aiutano a essere qualcosa in più di un mendicante. Non finisce di sognare di ritrovare la moglie, lasciata in patria per necessità. Non finisce di costruire edifici con la forza dell’immaginazione, in attesa di una committente reale. Che arriva dal megalomane Van Buren (Guy Pearce) che prima lo insulta, poi lo assume, poi lo ripudia e poi lo rivuole con sé. Una love story di interessi e ambizioni professionali che regala un progetto megalomane che giganteggia nella seconda parte del film, quando László perde lucidità e guadagna fede in se stesso e nella sua visione intoccabile dell’architettura.
Brody è un concentrato di sfumature emotive che sgorgano dall’artista genialoide del film come un flusso di coscienza spontaneo e naturale. A supportarlo una regia innovativa che si esprime in una narrazione insolita, sincopata e spesso sorprendente. Un’allucinazione visiva e uditiva che lascia incollati allo schermo, dall’inizio alla fine. Bravi tutti.
Mentre The Brutalist andava in scena, già dall’altro ieri notte spuntavano, ai lati del red carpet, i primi ombrelli parasole delle ammirevoli cheerleader “anoitrentottogradicifannounbaffo”, posizionate diligentemente in attesa delle star spellamani. Stiamo parlando dei due sessantenni evergreen: Brad e George. Inutili i cognomi. Era dal 2008 che i due non lavoravano insieme, per i fratelli Coen in Burn After Reading.
A Venezia presentano Wolfs, con la regia di Jon Watts, abile mestierante dell’ultima trilogia di Spiderman. Brad e George sono due fuorilegge che ripuliscono le scene di omicidi, avvenuti per caso o per commissione. Sono due di quei professionisti metodici della sparizione di prove che, da Pulp Fiction in poi, chiamiamo appunto Wolf, in onore del magistrale ruolo di Harvey Keitel nel ripulire l’auto schizzata di sangue. I due si ritrovano sul set di un omicidio per fare lo stesso sporco lavoro di ripulitura. E dovranno forzatamente collaborare.
Il film non è da concorso ma è certamente una riuscita commedia malavitosa che fa emergere un’intesa amicale (reale nella vita) da applausi. Non sarà un progetto da “Storia del Cinema”, ma entrambi dichiarano in sala stampa che, alla loro veneranda età, hanno voglia di passar più tempo con i propri amici. E se questi amici si chiamano Pitt e Clooney, ecco che viene fuori questa fresca magia di humor e intelligenza. E diciamocelo. Finora, a Venezia 81, nessun’altra attrice aveva prodotto l’euforia vista nelle strade, nelle code e davanti agli schermi di questi due. E non parliamo solo di donne attempate…
Chiude la terzina di film in concorso per la Palma d’Oro Ainda estou aqui. Un film brasiliano di grande impeto ideale che racconta l’evoluzione di una famiglia negli anni del regime dittatoriale dei Gorillas. Sono decenni violenti (quelli tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso) che hanno prodotto l’alienante effetto dei desaparecidos. Uomini e donne sparite, da un giorno all’altro, perché scomode al regime. Un’eredità mostruosa difficile da immaginare, per chi non l’ha vissuta. Che lascia vuoto e incertezza nella vita di chi resta. Allora e per sempre. Una storia vera, quella della famiglia Paiva, un doloroso grido, e un bel film, che merita di essere visto.
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