Il terzo giorno, alla Mostra del cinema di Venezia, si parla d’amore. I tre film in concorso raccontano aspetti diversi e complementari del più tormentoso sentimento umano.

Con Trois Amies il regista francese Emmanuel Mouret sviluppa una sorta di tassonomia dell’amore, ad uso e consumo dello spettatore. Ognuna delle tre protagoniste lo vive in modo differente, cercando la formula perfetta della sua apparente felicità. Joan è la coscienziosa, quella che non sa mentire, quella che se c’è un problema vuole affrontarlo, quella che ha paura di ferire ma allo stesso tempo è lacerata dal senso di colpa. Il suo matrimonio vacilla perché si è spenta la fiamma nei confronti del suo Victor. Alice è la cinica. L’amore non esiste e dunque va assecondato. Il suo sentimento, se c’era, è svanito da tempo, ma se l’amore non esiste tanto vale accontentarsi di quello che vi assomiglia di più. Rebecca infine è la spensierata. Zero coscienza, tanta esperienza. Come quella con un uomo sposato. E poco importa se quell’uomo è proprio uni dei mariti delle sue amiche.



Una commedia esistenziale che, con meno sorriso e meno talento, ricorda l’universo di Woody Allen, sconvolgendo le certezze attraverso una trama che si arrotola piacevolmente su se stessa. Spunti perfetti per lo spettatore che non può che ritrovare se stesso, in una delle numerose varianti dell’amore. Che tu sia del team “anima in pena”, “tuttoprimaopoifinisce” o “bastacherespiri”. Con un lumicino di speranza anche per quelli e quelle del “l’amoredellamiavita”.



Amore con la a minuscola, invece, nel film Babygirl della regista Halina Reijn. La famiglia felice viene distrutta rovinosamente dalla signora Kidman, al grido di “Tutti hanno diritto all’orgasmo”. Lo dice la Kidman, sfavillante nella sua plasticosa compostezza, nella conferenza stampa qui a Venezia. La storia di Romy, potente e volitiva amministratrice delegata di una grande impresa tecnologica alla Amazon, è un manuale di psicologia del potere. La donna più temuta dell’azienda cede, con una certa facilità, alle lusinghe dell’ultimo arrivato, lo stagista sopralerighe che la possiede. Dalla seduzione alla caduta, passando per decine di amplessi rubati dal catalogo BDSM, dove la potente donna celodurista per tutti diventa cagnolino del fragile stagista master, in cerca di carriera e verità.



Dalla trama può sembrare una porcata, ma il gioco erotico diventa un thriller appassionante che prova a stravolgere le regole dell’amore ai tempi della libertà politically correct. Ci sono riflessioni, sommerse, per tutti. Dagli spettatori novecenteschi a quelli della generazione Alfa, che forse nemmeno conoscono Nicole Kidman e il suo ieratico carisma da red carpet.

Il terzo film esplora l’amore adolescenziale. Si chiama Leurs enfants après eux (E i figli dopo di loro). Inizia bene, raccontando l’annoiata adolescenza di un ragazzo alle prime esperienze. Le sue ansie si incastrano con un doloroso contesto di degrado e periferia, coi bulli magrebini a scombinare le sue timide speranze amorose. Ma il film, tratto dal romanzo di Nicolas Mathieu, si attorciglia su se stesso, colpevole di logorrea che porta presto lo spettatore a perdere empatia, senso di realtà e desiderio di protezione. Fino a quando, verso lo scoccare della seconda ora (144 minuti la sua durata) finisce per rivelarsi una sorta di teen movie, con il protagonista alla disperata scoperta della sua prima volta con la bella del paese.

Nel quarto giorno di Festival veneziano, a riempire le agende d’appunti dei critici nazionali e internazionali sono i film di Gianni Amelio, con Campo di battaglia (primo film italiano in concorso) e di Justin Kurzel con The Order.

Classico, davvero troppo classico, il film di Amelio. È la storia di due medici al “pronto soccorso” della prima guerra mondiale, piena di feriti e mutilati in cerca di sopravvivenza. Il dottore cattivo li vuole rimandare tutti al fronte, anche senza pezzi di corpo. Il dottore buono (Riccardo Borghi) li difende, trovando delle buone cause per farli tornare a casa. Silenzi, teatralità, linguaggio defunto, emozioni azzerate accompagnati da una recitazione dialettale (accompagnata spesso da sottotitoli) e da una buona fotografia. Grande rispetto per l’ennesima condanna verso la guerra e i suoi retroscena. Ma nulla di più.

Più piacevole, alla visione, il film The Order, con Jude Law, che racconta una storia di fanatismo nell’America degli anni Ottanta. Il suprematismo bianco, sopravvissuto fino ai nostri giorni, si imbarca in un ambizioso progetto rivoluzionario, firmato “The Order”, volto a riconquistare la speranza nella possibilità di vivere in un mondo che potremmo definire ariano. Un razzismo obnubilato che produce violenza, rapine per autofinanziarsi e ottusi guerrieri pronti a morire per la pulizia etnica al contrario. The Turner Diaries, romanzo allucinogeno degli anni Settanta che li ha ispirati, è stato mostrato, nel 2021, anche negli inquietanti eventi di Capitol Hill. Un film che uscirà giusto in tempo per le prossime elezioni presidenziali americane.

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