Ieri al Festival di Venezia era il giorno di Joker: Folie à deux, il “sequel” del fortunatissimo e premiato Joker del 2019 (Leone d’oro a Venezia, 2 Oscar e premi vari sparsi). Un’attesa spasmodica per una delle grandi promesse di quest’anno. Alla regia ancora Todd Phillips. Alla maschera da pagliaccio ancora il sublime e inquietante Joaquin Phoenix. In più, rispetto alla storia di qualche anno fa, troviamo Lee (ovvero Lady Gaga), un personaggio femminile di cui Joker si innamora, ben corrisposto, dando vita a un sogno di amore capace di farlo sentire normale. Ebbene?
Direi geniale.
Geniale perché Folie à deux non è un sequel. O meglio lo è, essendo la storia del processo di Arthur, in prigione per l’omicidio di 5 uomini. Ma non lo è affatto nella sua narrativa, che si camuffa da musical. Probabile cocente delusione per i milioni di fan che avrebbero preferito la genuina melma malsana del puzzolente mondo di Joker e della sua stanca madre. Ma grande godimento per chi riesce, dopo un primo spaesamento, a superare lo scoramento per riallinearsi alla sofferenza dell’uomo, magro fino alle ossa, oggetto dello scherno di metà mondo.
Geniale perché Lady Gaga è già evento di per sé, trasformato a Venezia da un red carpet iniziato dall’albergo e finito in sala, star tra le star di questa ricca edizione festivaliera.
Geniale perché i pezzi di film e di generi cinematografici, dal comic al drama, dal court movie alla distonia di Gotham City, si fondono in un miracoloso filmone da premio del pubblico e della critica al tempo stesso.
Per chi si è travestito da Joker, in occasione della prima, nessun rammarico: Joker, in fondo in fondo, è ancora lui, con la sua risata triste, con la sua croce portata sul corpo e nell’anima, con la sua fragilità bullizzata e con il suo sogno di rinascita che lo trasforma, per qualche attimo, in idolo del nulla, underdog predestinato.
Non potrà vincerne un’altro di Leone, per il banale calcolo delle probabilità. Ma ad oggi è certamente uno dei titoli più rilevanti visti in sala.
Fa coppia con Joker la storia italiana di Riccardo Schicchi, l’inventore di Cicciolina, Moana Pozzi, Eva Henger e dell’agenzia Diva Futura (è anche il titolo del film), che ha rivoluzionato il mondo del porno italiano e sconvolto la visione tardonovecentesca della sessualità nel bel paese, abbattendo con palle di cannone il perbenismo cattolico che sudava dai corpi in contatto. Schicchi (nel film interpretato da un convincente Pietro Castellitto, che gioca a fare Bonolis), il demonio fatto a persona, condannato per favoreggiamento della prostituzione, viene santificato nella versione di Giulia Steigerwalt, regista statunitense che l’ha realizzato. Nel suo percorso di ricerca ha scoperto, secondo i numerosi racconti di chi l’ha conosciuto, che l’uomo Schicchi era in realtà un sorridente e ingenuo bambino, inebriato nel giocare con le sue bambole, animato da un sogno di libertà sessuale definito amorale (ma mai immorale) e da un profondo rispetto per la sua famiglia allargata tutta al femminile.
Un film commedia che non sarà Leone ma che fa simpatia, riportando disordine nella memoria del più famoso pappone italiano del porno.
Grande delusione invece per l’ultimo Guadagnino, Queer, dalle parole del regista il suo film più intimo e personale. Assurto agli onori della gloria con Call me by your name, Guadagnino ha alternato film straordinari a storie ai confini dell’improbabile. Come quest’ultimo, dove presenta una storia in quattro capitoli tra loro piuttosto scollegati dal punto di vista narrativo. Metà film si concentra sull’analisi psicologica del predatore gaio mezzo drogato, in missione messicana (impersonato dal bravissimo e bavoso Daniel Craig). L’altra metà è un viaggio allucinogeno alla ricerca di una droga capace di favorire la telepatia con la sensuale e giovane preda Eugene (Drew Starkey). Conforta sapere che la storia non è farina del suo sacco, ma è la versione cinematografica dell’omonimo libro di William Burroughs, tra i più importanti riferimenti della Beat Generation. Ma se il libro ha il suo perché, il film lo perde completamente, trasformandosi in un avventura all’Indiana Jones, con un cambio di registro ai confini della realtà.
Ancora peggio, in concorso, il film Harvest, della regista greca Athina Rachel Tsangari. Il suo è un polpettone bucolico di oltre due ore, ambientato in un’epoca indefinita infestata da sospetti di stregoneria. Un non-western campagnolo dominato da personaggi senza talento né volontà di sopravvivenza, che vengono spazzati via (a tratti viene da pensare “meno male”…) dalla modernità che in fondo altro non è che esercizio del potere e sfruttamento della terra. Onore al merito per l’intento educativo, ma forse serviva qualcosa di più avvincente o stimolante. In sala, sembra avere stimolato un visibile esodo di giornalisti.
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