È un altro dopoguerra: un tempo di ricostruzione. Così ha detto Mario Draghi in Senato, dove il suo governo al debutto ha ottenuto ieri la fiducia con 262 sì, 40 no e 2 astenuti. Draghi ha respinto tutte le formule con le quali si tenta di etichettare il nuovo governo. “È semplicemente il governo del paese. Non ha bisogno di alcun aggettivo”. Ha citato Cavour e papa Francesco, ha parlato di appartenenza del paese all’Unione Europea e all’alleanza atlantica, di “sovranità condivisa” e di “irreversibilità della scelta dell’euro”.



Ma c’è una contraddizione nell’esecutivo Draghi, secondo Antonio Pilati, ex commissario dell’Agcom, esperto di comunicazione, saggista. E dunque un fattore di instabilità. La classe dirigente che dovrà realizzare le maxi-riforme previste dal Recovery Plan è quella legata al Pd, il partito che per dieci anni è stato il perno di tutto il sistema politico e che “ha fallito, nei fatti, proprio sull’Europa, stella polare della sua azione politica”. Si apre di conseguenza una fase nuova, molto incerta per gli equilibri politici che si giocheranno intorno a Draghi e nel paese. La partita è già cominciata e a disputarla sono Lega e Pd.



Qual è secondo lei il cuore del discorso?

Draghi ha messo al centro le riforme previste dal Next Generation Eu, la scrittura del Recovery Plan, gli investimenti verdi e la modernizzazione digitale. È quello che ci si aspetta da lui: una serie di interventi che ci mettano in linea con le aspettative dell’Ue.

Non c’è solo questo: si va dalla risposta alla pandemia alla povertà e al Mezzogiorno.

Ma quello detto prima è il core business del governo ed è quello che interessa a Draghi.

E la politica?

C’è, ma fa già parte del contorno. Lo abbiamo detto tante volte: Draghi è arrivato non per una decisione interna alla politica italiana, ma per una decisione internazionale. Questa origine esogena si riflette nei punti di programma fondamentali che Draghi ha dichiarato. I restanti elementi politici, interamente italiani, si possono far risalire alle scelte del Quirinale.



Eppure sono una novità importante: Draghi stesso ha parlato di “nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione” tra le forze politiche.

Certo. E per capirlo, come nei gialli, bisogna fare un passo indietro. Con il fallimento del governo Conte 2 si è chiusa una fase politica iniziata nel 2011 con la lettera Trichet-Draghi e la caduta di Berlusconi. Adesso se ne apre una del tutto nuova.

Perché risalire addirittura all’arrivo di Monti?

Perché allora si è aperta un periodo di dieci anni centrato tutto sul Pd, che tranne i 15 mesi del Conte 1 è sempre stato al governo. Ed è stato il perno dell’intero sistema politico. La vera novità dell’ultima crisi è che questo assetto decennale è crollato di fronte all’incapacità di contrastare l’emergenza sanitaria e di soddisfare le richieste europee.

Dunque è il Pd alleato con M5s la vera causa della crisi. E poi?

Quel fallimento ha creato un vuoto potenzialmente rischioso, che Mattarella ha colmato con l’incarico a Draghi. La mia impressione è che il Colle abbia scelto di promuovere questa larghissima maggioranza come preludio di una nuova fase politica.

Cosa c’entra questo con il discorso di Draghi?

Con il suo discorso Draghi ha ottenuto la fiducia al governo. Ma quale governo?

Quello che dovrà fare le riforme richieste dall’Europa.

Appunto. Ma c’è tutta un’intera classe dirigente, che va dall’amministrazione pubblica a Confindustria, legata a doppio filo con il Pd. Nella costruzione della nuova maggioranza c’è stata una certa propensione, un favor verso l’area di centrosinistra, che è anche quella più penalizzata dal fallimento dell’equilibrio precedente.

Infatti il Pd ha tre ministeri, ma la sua politica economica è stata bocciata.

La bocciatura della politica economica del Pd fa parte del core business draghiano. Era inevitabile: il Conte 2, sostenuto a spada tratta dal Pd, ha fallito, nei fatti, proprio sull’Europa, quell’Europa che la sinistra ha sempre proclamato come la stella polare della sua azione politica.

Quali conseguenze ne trae?

Quelle forze politiche segnano una continuità con il passato e i suoi fallimenti. Sta qui, a mio modo di vedere, la contraddizione di questo governo.

Una contraddizione che lo indebolisce?

Un lascito ingombrante che può condizionarlo. Chi ha chiamato Draghi ha voluto aprire una fase nuova, ma nello stesso tempo dare respiro alle forze che escono più lesionate dal decennio e dalla gestione precedente.

Dove vuole arrivare?

Draghi si propone di fare importanti riforme. Ma non può prescindere nei suoi progetti di riforma da quella classe dirigente amministrativa che deve attuarle. La forza su cui si è retto per anni il sistema politico, la stessa forza di riferimento della classe dirigente del paese – il Pd – è un partito in crisi di identità e strategia. È passato dalla vocazione maggioritaria al proporzionale, da una leadership – quella renziana – aperta ai ceti produttivi ad una di matrice ingraiana, com’è quella di Bettini, in collegamento con una forza giustizialista, e sotto certi aspetti perfino squadrista come M5s. Tutto questo ha portato ad uno stallo strategico che non coinvolge solo il Pd, ma lascia la classe dirigente del paese senza un chiaro riferimento politico.

Per capirci, quel surreale “confermare Gualtieri, serve stabilità” del presidente di Confindustria Bonomi.

Siamo nella situazione di ricostruire un sistema politico e fare importanti riforme mentre saltano o sono da ridefinire le connessioni tra forze sociali, classi dirigenti e partiti politici.

Mi sembra un punto importante. Può essere più esplicito?

La crisi del partito-sistema Pd è anche la crisi dei suoi referenti nell’amministrazione pubblica, nella Confindustria, nelle grandi imprese, nei grandi media. Il governo Draghi, con il suo core business impegnativo, l’Europa, il Recovery Plan, il contrasto alla pandemia senza fermare l’economia dovrà essere anche un governo di decantazione, per ricostruire la scena politica e ricomporre i rapporti tra le forze politiche e gli altri poteri dello Stato.

Come si delinea la partita che si gioca in questo tempo e chi sono i suoi maggiori protagonisti?

Indubbiamente Lega e Pd, che devono ridefinire la loro strategia. La Lega sta cambiando schema di gioco, a cominciare da alcune parole d’ordine. Non ne va soltanto del riconoscimento sul piano internazionale. Numericamente la Lega è il primo partito, è il partito delle piccole imprese e delle partite Iva, che però non hanno potere politico, esattamente come la Lega non ha potere negli apparati dello Stato, nel mondo confindustriale e nei media. Non deve accreditarsi solo con i poteri internazionali, ma anche rispetto a questi mondi.

Da qui il sostegno a Draghi e al governo. E il Pd?

È ancora legato alla riproposizione della strategia fallimentare del vecchio contesto. Ma insistere, come sta facendo Zingaretti, in una linea di radicamento estremista è un atto disperato.

Ha detto “radicamento estremista”?

Quello dell’alleanza con i 5 Stelle, che hanno avuto dall’elettorato un’investitura eccezionale ma poi non hanno saputo cosa farne. Hanno fatto confusione e alimentato battaglie demagogiche senza una capacità di guida della comunità nazionale, e questo li ha man mano marginalizzati. Zingaretti potrebbe subire la stessa sorte.

Quella tra Pd e Lega è una competizione virtuosa? O cos’altro? Chi ne uscirà vincente?

È una competizione che sta dentro la nascita del nuovo assetto politico che per ora appare ancora indeterminato.

Draghi ha citato Cavour. “Le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano”. Anche quelle imposte dalle condizionalità europee?

La nostra debolezza, legato soprattutto al debito e alla fragilità dello Stato, ci rende molto dipendenti dall’estero. Riuscire con le riforme, soprattutto quelle legate all’ammodernamento dell’amministrazione, ci aiuta senza dubbio.

Un pronostico sull’azione di Draghi?

Il suo è un lavoro molto difficile. Fare le riforme richiede anche di smantellare centri di potere consolidati da tempo.

(Federico Ferraù)

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