Come può accadere che nel giro di due giorni la Corte d’appello di Milano e la Corte d’appello di Brescia si siano pronunciate in senso diametralmente opposto in merito ad una questione di non poco conto, vale a dire la trascrivibilità di atti di nascita delle cosiddette “coppie same-sex femminili”?

Desta ulteriore stupore e induce a riflessione il rilevare come entrambe le Corti abbiano fatto riferimento alle medesime pronunce in materia della Corte Costituzionale, ovvero ai medesimi principi ricavati dagli stessi ordinamenti sovranazionali. Ad oggi non è possibile sostenere che la materia non sia organicamente disciplinata da una legge, essendo in vigore la disciplina dettata dal codice civile in tema di filiazione e stato (secondo cui madre è chi partorisce), e nemmeno che sia esclusa ogni forma di tutela dell’interesse del minore nato all’estero da PMA a conservare le relazioni significative, potendo essere quindi direttamente riconosciuto il genitore biologico e, attraverso l’istituto dell’ “adozione in casi particolari” (si chiama proprio così), anche il cosiddetto “genitore d’intenzione”. Ciò conformemente ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato e aderente a quanto richiesto dalla Corte europea dei diritti umani (CEDU), che lascia ai singoli Stati la scelta della modalità più adeguata per regolamentare il rapporto tra i nati e coloro che intendono assumersi la responsabilità di crescerli, purché il riconoscimento del legame cosiddetto genitoriale avvenga in modo celere ed effettivo. E allora, da dove origina la divergenza interpretativa “di fondo” delle due Corti?



Per la Corte d’appello di Brescia, se la bussola orientativa della decisione deve essere il miglior interesse del nato, indipendentemente dal ricorso all’estero a pratiche vietate in Italia, il richiamo alla giurisprudenza costituzionale emersa in materia di figli incestuosi, riconoscibili da entrambi i genitori se d’interesse del minore ( nonostante l’incesto sia  penalmente sanzionato) viene utilizzato a sostegno della necessità di riconoscere in ogni caso, fin dalla nascita, il legame che il bambino ha con la “coppia” che lo ha desiderato, ricorrendo alla PMA all’estero. L’adozione in casi particolari, secondo l’opinione della Corte bresciana, non sarebbe uno strumento sufficientemente tutelante per il minore, visto che la lunghezza del procedimento non potrebbe assicurare quella celerità e rapidità nel riconoscere il legame genitoriale che la CEDU richiede a tutela del nato, non potendosi peraltro escludere nel frattempo il verificarsi della morte di una delle donne.



Un passaggio che disvela esplicitamente la pretesa della Corte di dettare essa stessa la norma che è chiamata ad applicare è quando afferma essere maturo il momento – vista l’inerzia del legislatore cui si era appellata “in prima battuta” la Corte Costituzionale, che già con la sentenza 32/2021 si era pronunciata in tema, rigettando però l’eccezione di costituzionalità – che sia l’autorità giudiziaria ad assicurare al minore la tutela dei suoi diritti fondamentali. E l’interesse preminente del minore, ovviamente, sarebbe sempre quello della creazione di una pluralità di legami. Non importa che la stessa autorevole Corte Costituzionale abbia valutato se stessa inadeguata ad intervenire, anche per non creare disarmonie sistematiche, indicando la necessità, se del caso, di un intervento legislativo.



Non interessa nemmeno interrogarsi sul fatto che anche il “non intervenire” possa essere una precisa scelta del Parlamento democraticamente eletto. La Corte d’appello di Brescia è tassativa: o interviene il legislatore nel senso di tutelare i minori nella forma auspicata dal Giudice (nel caso di specie, tutela del minore riconoscendo fin dall’origine alle due donne lo status di “genitore”) oppure, in caso di inerzia protratta dell’organo legislativo, questi si ritiene legittimato a provvedere direttamente, facendosi interprete in senso evolutivo dei principi fondamentali della Costituzione.

E ciò operando con una disinvolta parcellizzazione e stortura della lettera della legge 40, ritenendo applicabile a queste situazioni l’art. 8 della suddetta legge, che in caso di fecondazione eterologa riconosce al nato lo stato di figlio della coppia che è ricorsa alla procreazione medicalmente assistita, così operando però contrariamente all’impianto generale della stessa legge 40, che riconosce la PMA solo quale rimedio curativo per l’infertilità di coppie eterosessuali conviventi, e in violazione dei divieti in essa contenuti, tra i quali l’inapplicabilità della suddetta pratica alle coppie omoaffettive (opzioni tra l’altro costituzionalmente legittime, come statuito dalla sentenza 122/2019 della Corte Costituzionale).

All’opposto, la Corte d’appello di Milano, tenendo realisticamente conto della complessità della vicenda, riconosce il potere legislativo quale luogo necessario di sintesi e bilanciamento di tutti gli interessi in gioco, ivi compreso quello del minore al riconoscimento di una relazione, come ogni altro però non automaticamente prevalente. Inoltre, richiamando l’adozione in casi particolari come strumento di tutela dei minori, prudentemente ne riconosce la rispondenza “alla realtà effettuale e scientifica e, senza operare alcuna fictio, rende coerente il vissuto reale con la forma giuridica che la descrive”. In altri termini, i bambini di cui si discorre – al pari di tutti gli altri – hanno biologicamente una mamma e un papà (il donatore che non si vuole far riconoscere).

Vengono quindi adottati dalla cosiddetta “madre intenzionale” mediante il ricorso all’adozione in casi particolari, luogo adeguato di accertamento del concreto interesse del minore e rispondente alla realtà fattuale, incluso il diritto di conoscere le proprie origini.

Concludendo e semplificando, la differenza tra le due sentenze sta nell’approccio metodologico dei giudici che le hanno scritte: l’uno, Brescia, assolutizzando un particolare e cioè l’interesse del minore, facendosi paladino dei diritti, giurisprudenzialmente li crea; l’altro, Milano, riconoscendo la complessità della realtà si sottomette all’ordinamento riconosciuto.

Ricorrendo ad una categoria cara alla notissima giurista americana Mary Ann Glendon, da un lato il giudice “romantico”, creativo, dall’altro il giudice “classico”; da un lato il giudice che, lamentando l’inerzia del legislatore, tende a usurparne i poteri, dall’altro il giudice che si limita modestamente a fare il suo lavoro, interpretando le norme esistenti. Come cittadina (e ancor più come avvocato), la mia preferenza va sicuramente al secondo, rispettoso della volontà popolare, anche quando non intende esprimersi.

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