Bimbo morto perché, pare, dimenticato in auto dal padre. È successo di nuovo, ora a Catania, e succederà ancora. Perché poteva succedere a chiunque di noi. La società-tsunami ha portato la frenesia del lavoro a falcidiare l’attenzione umana e qualcuno (ma, ripeto, potevamo essere tu o io) paga un conto salato. Salatissimo.
Perché tutti siamo in un vortice, nello stesso vortice. Una società che mette come obbligo di essere una funzione, di rispondere alla propria funzione e al proprio ruolo prima di tutto porta tutti ma proprio tutti a correre per non essere di meno di quello che gli altri e alla fine noi stessi – si aspettano da noi. La corsa è diventata da mezzo, un fine, perché non si corre più per ottenere, ma solo per far vedere che corriamo. Magari più degli altri. E non è una colpa di noi singoli, non è un errore, ma esattamente la condizione di tutti. Günther Anders lo chiamava “invidia prometeica”; oggi, spiegava, ci si uniforma al comportamento automatico-routinario perché l’uomo è così invitato ad essere parte di un ingranaggio, pedina di un’azienda (vedi scuola e sanità) che è drammaticamente portato ad invidiare le macchine con la loro fredda capacità di rispondere al solo compito che è loro affidato. I danni non sono una colpa del singolo, ma una tragica conseguenza di questo vortice di lavoro-mito che ci avvolge e strappa dal suolo della vita.
Triste ironia, l’unica soluzione che si sente in giro è mettere i sensori ai seggiolini delle macchine per avvisare i genitori sbadati. Come se ad uno tsunami culturale dovuto alla perdita generale dell’identità umana, sostituita dall’ideale di diventare come delle macchine, solo la macchina e non l’autocoscienza potesse dare risposta. Ironia: l’uomo che diventa macchina verrà salvato dalle macchine? I grandi filosofi del secolo scorso, a iniziare da Martin Heidegger, inorridirebbero. Perché il conformarsi della coscienza con la macchina – spiegava il filosofo – è la causa della caduta e non la soluzione. Oggi ci identifichiamo con il pezzetto di lavoro che ci è chiesto, invitati ad ignorare il pezzetto accanto perché non è di nostra spettanza: “non è compito mio”, anche se è una cosa risolvibile, anche se è una cosa grave. Perché rispondiamo al compito assegnato, corriamo dietro al compito assegnato, ci immedesimiamo col compito assegnato. Ci auto-riduciamo al compito assegnato.
Duplice triste ironia: oggi proliferano mille e mille convegni sul trans-umanesimo, sull’intelligenza artificiale e la robotica (anzi pare che in certi ambienti quando si parla di bioetica ormai si parli solo di questo), come se il vero trans-umanesimo non sia sorto quando l’uomo ha smesso di guardare al lavoro delle sue mani (vario e variabile, che abbraccia la persona, il cliente, il telaio, il fratello) e si è identificato col compito che gli veniva dato. Il trans-umanesimo è già qui e non per colpa dei robot. È un gioco che invita tutti ad essere burocratici e freddi e limitati al proprio piccolo compito, a vedersi come piccoli ingranaggi che corrono e si dibattono, a invidiare il robot più freddo ed efficiente. Chi pensa di risolvere con i seggiolini intelligenti ha già perso il treno.