In questi giorni, comprensibilmente, la vicenda di Filippo Turetta e Giulia Cecchettin sta riempendo giornali e social. Tanti scrivono qualche riflessione, dicono la loro, si augurano un reale cambio di passo che permetta di non vedere più notizie come queste. Ma cosa può permettere un vero cambiamento?
Subito mi è venuto in mente un passaggio di un famoso racconto del Vangelo: “Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: ‘Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo’. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo” (Lc 15, 25-28).
Gesù, raccontando la parabola del padre misericordioso, non tace la reazione del figlio maggiore, come un’ultima pugnalata al cuore del padre. Il figlio perfetto, obbediente, laborioso, serio. Al mattino si alzava puntuale e, dopo una rapida colazione, andava a lavorare nei campi senza salutare nessuno lungo la strada. Non aveva tempo per gli amici e nemmeno per altri interessi che non fossero i suoi doveri. A fine mese aveva sempre la paga intatta, perché non spendeva nulla. Senza vizi e capricci era il figlio ideale. Fino a quel giorno, il giorno di musica e danze.
Lui era abituato, sotto il sole cocente, al rumore insistente della zappa e, non essendo capace di incuriosirsi, si insospettisce. Emerge all’improvviso nel suo cuore un sospetto che mai aveva provato prima. Un sospetto contro tutto, contro una vita consegnata ai doveri, contro un donna che non lo vuole, contro il mondo che non ha previsto un posto per lui, contro il fratello che è scappato di casa e persino contro suo padre e la sua insopportabile letizia. Quando viene a sapere il motivo della musica e delle danze, all’improvviso si sgretola tutta la sua vita da “figlio perfetto”. Nel suo cuore tutto si oscura e trova spazio solo per l’indignazione. Antica arte, questa, che da una vita aspettava di poter usare. Finalmente può indignarsi, sbattere in faccia al padre tutto il suo sospetto, rovesciargli addosso il peso di una vita triste, fatta solo di buone maniere.
Qualsiasi padre – vengono in mente, qui, le parole del padre di Filippo Turetta – a questo punto, avrebbe potuto stupirsi fino a domandarsi: “Ma è mio figlio? Cosa gli è successo? Non è concepibile!”. Ogni padre avrebbe potuto dire così di entrambe i figli, del più giovane andato e tornato, e del maggiore che è rimasto senza esserci mai stato fino in fondo.
Invece Gesù dice un’altra cosa. Il padre della parabola “uscì a supplicarlo”. Cosa c’è in gioco per un comportamento così? C’è in gioco la verità di ciascuno. Il padre, davanti alla verità umana dei propri figli, non è disposto a perdere tempo o ad abbandonarsi a rimproveri e punizioni, preferisce occupare il posto del mendicante.
Non immagina altri scenari, non cede alla tentazione di facili consolazioni, non segue la moda di manifestazioni stereotipate con linguaggi e definizioni da perbenisti, non rinnega nessun legame, non asseconda alcuna sirena che indurrebbe a pensare che sarebbe stato meglio non avere due figli così o non essere mai diventato padre; semplicemente mendica il loro cuore.
Qui è posto il centro di ogni autentico rapporto educativo, soprattutto quando tutto sembra essere irrimediabilmente saltato. I figli sono come sono, e i genitori lo sanno bene, ma nessuno sa come saranno. In nome di ciò che un Altro può rendere possibile in ciascuno, la mendicanza rimarrà sempre l’atteggiamento più ragionevole. Per questo la paternità e la maternità rimangono, nonostante tutto, nonostante tutti i tentativi di messa al bando, le sfide più entusiasmanti di sempre, la misericordia l’ultima parola su tutte le nostre miserie e il cambiamento non più un’illusione auspicata da chi, spesso, è il primo a non crederci.
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