Subito dopo la chiusura del seguitissimo processo contro Filippo Turetta, reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin, l’avvocato cardine della difesa Giovanni Caruso ha rilasciato una breve dichiarazione al Corriere dalla Sera spiegando le ragioni per cui lui e la collega – la dottoressa Monica Cornaviera – ritengono infondata l’ipotesi della premeditazione: una tesi già avanzata davanti alla Corte d’Assise di Venezia che da ieri sta discutendo la pena da infliggere a Filippo Turetta con l’accusa dei pubblici ministeri che ha chiesto per il ragazzo l’ergastolo.
Secondo l’accusa – infatti – non solo Filippo Turetta avrebbe ucciso volontariamente Giulia Cecchettin, ma l’avrebbe fatto anche con (tutte aggravati a sostegno dell’ergastolo) crudeltà e premeditazione, dopo aver una lunga serie di atti persecutori, tanto che secondo i PM al killer non dovrebbero essere riconosciute neppure le attenuanti generiche: ipotesi – quelle dell’accusa – che se fossero accolte dalla corte il legale del reo confesso assassino ci tiene a mettere in chiaro che verranno “accettante, anche se non le merita”.
Il legale di Filippo Turetta: “La lista nel cellulare dimostra che non c’era premeditazione nell’omicidio”
Entrando del merito delle ragioni alla base del suo pensiero, il dottor Caruso ai microfoni del Corriere parte dal ricordare che la premeditazione chiesta per Filippo Turetta si basa su “due elementi costitutivi: da un lato il lasso temporale che deve intercorrere tra l’ideazione e l’esecuzione del delitto e dall’altro l’elemento ideologico” che se dal conto dell’aspetto temporale non vengono messe in dubbio, lo stesso non si può dire se si guarda “alla compattezza ideativa del proposito criminoso che si configura solo quando c’è una persistenza costante, senza indecisioni o intermediazioni“.
Dal conto loro i legali di Filippo Turetta – infatti – ritengono “che l’imputato abbia agito in preda all’incertezza e alla mancanza di continuità ideativa” come dimostrerebbero le numerose prove e soprattutto la famosa (o famigerata) lista trovata sul telefono del ragazzo e usata dall’accusa per rendere fondante l’ipotesi della premeditazione: “Gli oggetti appuntati – spiega Caruso – non sono oggetti rapportati alla soppressione della vita, ma che sembrano evocativi di un intento volto a privare della libertà personale” citando in particolare “il calzino in bocca o i lacci per legarla” che si rivelerebbero del tutto futili nel caso in cui si intenda uccidere una persona che non potrebbe – dunque – “né urlare, né fuggire”, così come “la finalizzazione del coltello” dal conto loro era quella di “minacciarla per non farla andare via“.