Se non fosse per il nostro inguaribile ottimismo, che ci permette di guardare con interesse ai cambiamenti della nostra società, e ai riflessi che interessano da vicino la persona, diremmo che questa stagione, quella della globalizzazione, non sempre premia l’uomo. Ed è il lavoro che cambia, ad offrirci gli esempi di oggi. Sono settimane difficili per i giovani che cercano un lavoro; gli indicatori parlano di tassi di disoccupazione alti, che sfiorano il 30%. Certo a Milano e in Lombardia la situazione non è così difficile, grazie anche all’impegno nella formazione della Regione.

Ma torniamo alle situazioni più complesse. Nei giorni scorsi, in Triennale si sono riuniti centinaia di lavoratori autonomi, partite iva, professionisti che hanno messo in scena il loro “Quinto Stato” e hanno scritto il loro manifesto. I “professionisti della conoscenza” hanno messo in scena la loro vita e il loro lavoro.

Incontri serrati per dire come vivono i professionisti di oggi, poche garanzie, tanta creatività e voglia di fare. Al servizio di imprese grandi e piccole, un po’ vessati da richieste inique dell’INPS ed esclusi di fatto, dalle grandi organizzazioni di rappresentanza, nate per tutelare il lavoro dipendente ma incapaci di costruire un percorso per questi lavoratori.

Che, lamentano: «Paghiamo le pensioni degli altri ma noi non ne avremo una sufficiente a sopravvivere. E in più ci chiamano evasori». Dunque una realtà “anomala”, fatta di persone, sicuramente qualificate, certamente indispensabili ai sistemi di produzione del reddito, ma senza una rete protettiva adeguata. E allora serve davvero una riforma del welfare. Costruita sulle persone che lavorano, prima ancora che sulle categorie.

In questo caso sono grafici, traduttori, web designer, consulenti. Hanno competenze diverse, ma moltissimo in comune. Lavorano per conto di imprese o enti pubblici e hanno deciso di fare rete per farsi conoscere e trovare una rappresentanza forte. Lavori che cambiano. Lavoro che cambia. E’ il caso della Fiat di Mirafiori. Che può diventare un nuovo modello di relazioni industriali.

Ha vinto il si ma la ferita resta aperta. Perché una parte del mondo sindacale non ha voluto guardare alle opportunità proposte da Marchionne, non ha voluto scegliere la strada del rilancio industriale, di una rinascita comune, per cedere ad una visione ideologica, tutto sommato antagonista. Ma buona parte della storia recente delle relazioni industriali, anche in Europa, parla di ipotesi di gestione comune tra impresa e lavoratori.

 

 

Rischiamo insieme, facciamo fatica tutti assieme per uscire dalla crisi, ma i risultati positivi saranno comuni. Una scommessa sulla capacità della fabbrica di saper crescere in un momento di crisi, puntando sul lavoro, sulle persone e sull’innovazione. Ma è qui che la forza delle organizzazioni sindacali più consapevoli, deve saper guardare avanti, per creare dinamiche virtuose in grado di tutelare il lavoro, le capacità delle persone ed un progetto di sviluppo condiviso.

Una nuova stagione di partecipazione dei lavoratori, di bilateralismo territoriale che permetta anche un rilancio dei salari per farli arrivare ai livelli di Germania e Francia. In questo momento è necessario puntare su sistemi aperti che mettano le persone al centro e le risorse in rete. Resta molto lavoro da fare.