Il principio di sussidiarietà è ormai unanimemente indicato come punto di riferimento delle politiche sociali nel nostro paese e in Europa. Ciò nonostante, è ancora diffusa l’idea che il welfare (letteralmente benessere) sia l’esito di un sistema governato, regolamentato e sostenuto economicamente dallo Stato; persino alcune organizzazioni del terzo settore continuano a concepirsi come erogatrici di servizi per conto dell’ente pubblico. E’ una visione che non tramonta del tutto, nonostante il fallimento di tanti sistemi di welfare state e la progressiva e inesorabile diminuzione delle risorse economiche pubbliche disponibili.

Propongo di seguito alcune riflessioni sul welfare e sull’applicazione del principio di sussidiarietà, a partire dalla mia esperienza e dalla realtà che vivo.

Insieme a un sacerdote, alcuni giovani amici e la ragazza che avrei sposato l’anno successivo, nel 1985 aprivamo una comunità per tossicodipendenti: eravamo tutti volontari, con differenti percorsi scolastici ma nessun titolo di studio specifico (non esisteva la facoltà di scienze dell’educazione) e contavamo molto sulla Provvidenza.

Ci muovevano un desiderio di bene al quale eravamo stati educati nelle nostre famiglie, negli oratori e nei gruppi scout e la volontà di utilizzare al meglio la nostra vita. Mi domando: con le regole e gli standard di oggi avrei potuto intraprendere la stessa avventura?

Negli anni successivi cresceva l’esigenza di organizzare e rendere più efficace e stabile la nostra opera; per questo motivo è nato il Gruppo La Strada. Abbiamo stipulato convenzioni con enti pubblici, imparato a progettare e chiedere finanziamenti a istituzioni e fondazioni; abbiamo anche aiutato altre piccole opere a crescere e strutturarsi, per rispondere meglio ai diversi bisogni incontrati. Ma nel frattempo sono cresciuti anche adempimenti, regole e standard da rispettare: sicurezza, privacy, iscrizione ad albi e registri, bilancio sociale, persino la misurazione dello stress! Tutti obblighi onerosi, che pesano sempre di più nella composizione del nostro bilancio economico.

 

Alcuni mesi fa abbiamo ottenuto dal Comune di Milano un immobile confiscato alle mafie, per destinarlo all’accoglienza di papà separati (un nuovo e diffuso bisogno, già emergenza nella città di Milano). L’edificio doveva essere in parte ristrutturato e per questo abbiamo raccolto diversi preventivi: per renderlo abitabile erano necessari più di 50 mila euro.

 

Non avendo a disposizione una riserva economica, scoraggiati, stavamo pensando di rinunciare. In un estremo tentativo, la scorsa settimana ho incontrato due volontari di un’associazione di papà separati, per valutare possibili forme di collaborazione: in meno di 24 ore hanno organizzato un campo di lavoro che sta coinvolgendo una decina di loro associati, disposti a fornire gratuitamente mano d’opera, attrezzature e persino le necessarie certificazioni. Oggi sono ottimista, tra poche settimane potremo iniziare l’accoglienza. In queste persone ho ritrovato l’entusiasmo, la gratuità e lo stesso desiderio che muovono le persone di fronte ad un bisogno.

 

Un dubbio mi è sorto spontaneo: conta di più la regolamentazione del sistema del welfare o la capacità di tenere vivo, alimentare, valorizzare e sostenere questo desiderio di bene?