Quando soffia il vento della crisi, anche il dibattito sull’immigrazione deve trovare nuove argomentazioni e, forse ancor più che in passato, armarsi di sano realismo. Innanzitutto perché è evidente che, crisi o non crisi, dalla nuova realtà migratoria che ci accompagna da almeno trent’anni non si torna indietro. Sia per il fatto, tutt’altro che marginale, che “gli uomini non sono birilli”, sia perché, oggettivamente, i nuovi equilibri che sono andati costituendosi in questi ultimi anni prevedono una presenza straniera senza la quale si rischierebbe di non poter far fronte a bisogni e a produzioni che ormai, quasi istituzionalmente, gravano per lo più sulla popolazione immigrata. Che fare dunque per rendere compatibile un’immigrazione di lavoratori in un sistema economico in cui il lavoro tende ad essere sempre più bene prezioso?

A mio avviso una risposta efficace può muovere lungo due direzioni, entrambe connotate da un obiettivo di “qualità”. Da un lato, si potrebbe perseguire l’idea di un’immigrazione sostenibile, cercando di definire quantità e caratteristiche di quei flussi che potrebbero ricevere dignitosa accoglienza e adeguata integrazione nel nostro Paese; dall’altro ci si dovrebbe orientare verso una reale valorizzazione delle capacità e del desiderio “di fare” che la gran massa degli immigrati esprime quotidianamente e talvolta disordinatamente per carenza di mezzi e di opportunità.

Personalmente, quando penso all’immigrato “come risorsa” non mi riconosco in chi, quasi a tutti i costi e con valutazioni statistiche che mi ricordano il “abbiamo vinto tutti” del dopo elezioni, vuole dimostrare la convenienza economica o demografica dell’immigrazione straniera in Italia. Certo, è innegabile che lavori e produzioni altrimenti compromesse siano stati colmati – al pari di culle altrimenti vuote – con il contributo degli immigrati, ma attribuire a redditi medi che non arrivano ai mille euro al mese il potere di garantire quote consistenti del PIL o del gettito fiscale sembra essere, a mio avviso, una forzatura. Così come lo è quella di immaginare il miracolo di una demografia salvata unicamente dal contributo di un’immigrazione che, come il sano realismo di cui sopra ci ricorda, sta dimostrando di sapersi adeguare alla fecondità degli autoctoni e si avvia inesorabilmente a vivere un suo percorso di invecchiamento demografico.

Se dunque è vero, – almeno a mio avviso- che non è con questi argomenti che l’immigrazione si trasforma da problema in risorsa, è anche vero che l’esperienza ci ha spesso dimostrato come una quota consistente del popolo degli immigrati sia molto vicino, per volontà e impegno, al modello del popolo degli italiani che fecero, a suo tempo, la ricostruzione (prima) e il miracolo economico (poi). Non è dunque la (ancora piccola) percentuale aggiuntiva di PIL fornita dagli immigrati ciò che ci manca per crescere e spingerci oltre la crisi; lo è invece la generale assimilazione/accettazione della loro capacità di rimboccarsi le maniche e di tentare (faticosamente ma con tenacia) di costruirsi un futuro. La risorsa che l’immigrazione può darci, oggi nel guado della crisi, è ben di più che 70-80mila nascite annue o qualche non ben definito punto percentuale di reddito nazionale, è il rilancio di uno stile di vita che appartiene a un passato virtuoso: è la riscoperta di valori come il sacrificio e la disponibilità a darsi da fare, come e quando serve.