Fino a ieri dire “tragedia di Lampedusa” significava parlare di centinaia di immigrati, pericolosamente catapultati dal mare su uno scoglio troppo piccolo per reggerne il peso. Si pensava al disagio, alla paura, alla sporcizia, allo “spettacolo indegno” come tanti politici si sono affrettati a definire, di clandestini e qualche profugo in cerca di miglior fortuna in terra europea. Oggi la parola tragedia ha il significato vero: si parla di vittime, di lutti, di dolori insopportabili alla mente e al cuore.
Magari qualcuno l’aveva ipotizzato che poteva finir male, ben peggio di quanto finora pensato, un’ombra fuggevole, subito scacciata per esorcizzarla. Come se il mare fosse amico per tutti, una strada sicura per far approdare a nuovi porti uomini e speranze. Neanche una previsione, dunque, che avrebbe spronato un’azione più decisa, un qualche intervento diverso dallo scortare i barconi, farli attraccare, distribuire acqua e ciotole di pasta. Troppe cose in questi tempi non si erano previste, e colpevolmente . Altre cose erano prevedibili, perché se gli porti la guerra in casa, chi può scappa, altri ne approfittano, e colgono l’occasione per tentare la sorte.
Dunque non è il fato, o l’ineluttabile corso dei ricorsi storici, che ci porta necessariamente ondate di migranti disperati, che ci obbliga a farci i conti. A che serve la politica, e la politica internazionale, se non ad affrontare le emergenze, ad occuparsi delle persone oltreché dei denari, è domanda che ci facciamo in molti, sbigottiti dall’inerzia che copre la sprezzante indifferenza. Oggi, siamo certi, alle dichiarazioni seguiranno risoluzioni, si alzeranno parole di dolore e di sdegno. Sarà l’ora di nuove accuse e colpe da rinfacciarsi l’un l’altro, tra partiti e tra stati. Non si può morire così! Dei bambini, non possono morire così! Invece si può, come si poteva in Sudan, come si poteva nel Corno d’Africa, come si può in Afghanistan, e non è meglio saltare su una mina o essere falciati da bombe amiche.

Si vorrebbe invece un po’ di silenzio, qualche testa china. E che gli accordi appena firmati con governi provvisori e manovrati da chissà chi avessero il piglio di imposizioni. Se aiutate gli scafisti a metter per mare tutta questa povera gente vi tagliamo alimenti, sostegno, poltrone. Subito. Perché abbiamo visto tutti, nei tiggì, i militari tunisini assistere agli imbarchi, segnalare alle carrette del mare l’ordine di partenza, non impotenti, semplicemente complici. Poi si tuona con francesi, tedeschi e inglesi, e con tutti gli altri, che si aprano le frontiere e ci si prenda la responsabilità di accogliere, prima, poi identificare e sistemare gli sfollati, controllando magari i delinquenti.
Dopodiché, le strategie di noi spettatori si fanno da parte, e si leva la domanda di un significato: perché. O questa terra è davvero un atomo opaco del male, o la tragedia è il destino per l’uomo, e allora i morti neanche più li contiamo, tra una settimana tiriamo su un monumento che ricordi al posto nostro, e ne aspettiamo di nuovi.
Oppure, questi poveri morti non sono disgraziati, non sono perduti e dimenticati agli occhi di chi li ha creati e voluti per tutti i giorni della loro vita; e la loro fine non è inutile, come non è inutile il pianto di un bimbo che si spegne, travolto dal dolore, in un ospedale. O è così, o tanto vale chiudere gli occhi, e tirare a campare, sperando che a noi vada bene il più a lungo possibile. O c’è un Dio a cui affidare quei corpi in mare, che un giorno li faccia risorgere, o possiamo fare di tutto per tamponare, ed è un dovere imprescindibile. Ma qualunque tragedia ci lascerà solo più cinici, o disperati.
Invece, anche in tempi in cui di resurrezione non voleva sentir parlare nessuno, la tragedia serviva intanto per purificare, per cambiare lo sguardo, per condividere il dolore, e muoversi alla pietà.