Il raggiungimento del quorum ed i risultati di questa consultazione referendaria offrono alcuni spunti di riflessione che dovranno essere affrontati e approfonditi nei mesi a venire.
I cittadini venivano interpellati su questioni molto complesse e molto tecniche, ma che ridotte ad un nucleo semplice, per un SI o un NO, hanno suscitato interesse e dibattito.
Analizzando le ragioni che hanno portato tante persone a recarsi alle urne, permettendo di superare quella soglia di 50% + 1 dopo che per 16 anni non era stato raggiunto il quorum, appare chiaro che si è votato contro proposte che non hanno avuto la capacità di imporsi come progetti credibili e praticabili. Sulla spinta emotiva del disastro di Fukushima il SI del quesito sul nucleare ha portato ad una risposta analoga su tutti gli altri quesiti. Con i referendum si è deciso che cosa non si vuole fare per affrontare il tema dell’indipendenza energetica del nostro paese ma senza essere in grado, almeno al momento, di identificare quale strada si vorrà prendere.
Senza avventurarci in analisi politiche che competono ad altri ci limitiamo ad osservare che anche questo risultato mostra un crescente disagio verso l’immobilismo del quadro politico nazionale.
Dobbiamo perciò registrare una domanda di cambiamento, con venature di protesta, contro una politica troppo lontana dai problemi quotidiani delle persone perché rinchiusa nella propria autoreferenzialità e incapace di sostenere e motivare le proprie proposte in un disegno di sviluppo.
Il pericolo di questo risultato è che uno statalismo dolce torni ad affermarsi come risposta alle sfide di questi anni.
Mi riferisco in particolare ai temi dell’acqua, anche se il discorso può valere per tutte le public utilities locali. Il rischio che corriamo è un rifiuto di gestioni industriali per favorire di nuovo una gestione pubblica fatta di inefficienze e regali a rendite politiche locali. Nessuno può né vuole privatizzare e vendere l’acqua, ma solo promuovere in modo aperto gli investimenti in acquedotti e depuratori, quelli che in Italia mancano o fanno registrare uno spreco del 40% dell’acqua trasportata. L’inefficienza non ha parti politiche e bisogna trovare la strada per fare gli investimenti necessari a mettere fine a questo spreco ed ottenere una maggiore efficienza, cioè il risultato massimo con il minor dispendio di energie. L’esperienza dimostra come sia sbagliato credere che solo il pubblico possa stabilire e perseguire l’interesse della società perché con questo approccio si penalizza la possibilità di mettere a frutto le capacità e gli investimenti disponibili per ottenere un sistema migliore.
Il secondo aspetto che colpisce è che, dai risultati soprattutto dei referendum cittadini, emerge una certa tendenza conservatrice dello status quo. Nei referendum locali venivano posti quesiti con i quali era difficile essere in disaccordo: certo che vogliamo più verde e meno traffico, certo che vogliamo recuperare la darsena e certo che vogliamo risparmiare energia. Però non vogliamo rinunciare alle nostre abitudini. Il rischio è allora che tutto resti fermo, e che la rinuncia da parte dell’amministrazione ad interpretare le esigenze della società permetta di sviluppare progetti concreti per un rinnovato sviluppo perseguendo il bene comune. Dai quesiti non escono indicazioni operative concrete sullo sviluppo complessivo della città che vogliamo, e le domande restano aperte e così si rischia di rimanere senza proposte. Una città che cresce e si sviluppa e che offre libertà e responsabilità ai suoi cittadini è la risposta migliore per il desiderio dei tanti che ogni giorno si impegnano con il loro lavoro e nelle loro opere contribuendo così al bene comune.