E se le coppe post-lockdown diventassero la norma per gli anni a venire? Nel momento in cui scriviamo il Siviglia ha già guadagnato l’accesso alla finale di Europa League e aspetta la vincente di Inter-Shakhtar (i nerazzurri potrebbero diventare la prima finalista italiana nel torneo, spezzando un digiuno assoluto che dura da 21 anni per i nostri colori); in Champions League attendiamo invece le semifinali Lipsia-Psg e Lione-Bayern. Il quadro è chiaro: una squadra, quella ucraina, che dopo il sorprendente titolo del 2008 ha faticato a tenere il livello pur essendo una presenza costante in campo internazionale, poi due che non si erano mai spinte a una semifinale della nuova Champions League (il Lipsia è alla prima semifinale europea della sua storia), un’assoluta outsider che ci torna dopo 10 anni (e tanta mediocrità in mezzo) e una superpotenza che, unica tra le tante, ha superato la tagliola della pandemia, le porte chiuse e il campo neutro. La premessa d’obbligo, per evitare che ogni 24 ore il discorso possa cambiare, è presto fatta: anche in ambito di normalità abbiamo avuto edizioni delle coppe che hanno regalato verdetti impronosticabili sulla carta (qualunque riferimento ad Alavés e Fulham, solo per citarne due, non è casuale), ma dovendo giudicare quanto accaduto nel contesto presente non possiamo fare a meno di raccontare quanto ci si dipana davanti agli occhi.
FINAL 8 CHAMPIONS LEAGUE: IL QUADRO
La letteratura sulle coppe post-lockdown si divide, come del resto era lecito aspettarsi e come sempre succede: chi tuona che questo non è più calcio o quantomeno sia equiparabile ai tornei estivi con rose ridotte e in lavorazione; chi apprezza il fatto che canicola e sosta forzata e prolungata abbiano sospeso gli esasperati tatticismi a favore di un gioco più istintivo e offensivo – semplicemente perché la forza per gli scivolamenti in copertura e i movimenti a blocchi compatti e costanti è venuta meno – chi scuote la testa pensando che, se il Coronavirus non ci fosse mai stato, le semifinaliste di Champions ed Europa League non sarebbero state queste. Non è questione di tifo: per esempio la Juventus vista a Lione avrebbe comunque meritato di uscire e, probabilmente, l’Atalanta al Parco dei Principi avrebbe subito una ripassata anche peggiore da quei due diavoli che si chiamano Neymar e Mbappé. Non è questo il punto del diverbio: è inevitabile che il modo in cui questa stagione si è conclusa non possa essere considerato “normale”. Il che non significa che chi porterà a casa i trofei internazionali lo avrà meritato meno di altre; significa però che bisognerà considerare, altro esempio, che il Bayern abbia avuto un mese per preparare la volata finale e le francesi abbiano interrotto il loro campionato a marzo, mentre italiane, inglesi e spagnole siano state impegnate ogni tre giorni per un mese e mezzo, arrivando a fine luglio o inizio agosto.
Ora, chi è arrivato in semifinale di Champions League? Due francesi e due tedesche. Anche qui: può essere un caso – nel 2010 c’erano due tedesche e una francese, con Bayern e Lione ancora presenti – ma il multimilionario Psg dei tempi recenti nella Final Four della principale competizione non ci aveva mai messo il naso (subendo almeno due clamorosi ribaltoni). Caso diverso il Lipsia: inutile nascondere i meriti di Julian Nagelsmann, doveroso sottolineare che in condizioni normali ci sarebbe stato anche Timo Werner, ma va anche rimarcato che senza lockdown l’armata Red Bull avrebbe dovuto visitare il Wanda Metropolitano, uno stadio che è più simile a un inespugnabile fortino; e che l’Atletico Madrid appena prima aveva fatto fuori il Liverpool, rimontandogli due gol con formidabile forza di volontà. Per non parlare degli 8 gol incassati dal Barcellona: siamo certi che senza lockdown non sarebbe successo, ma è anche vero che la batosta epocale riflette quanto visto per tutto il 2019-2020. Ancora, comunque, il tema non riguarda chi si è qualificato e chi invece è rimasto a guardare: almeno marginalmente, nel senso che immaginare Lipsia e Lione in semifinale sarebbe stato difficile a bocce ferme – senza Coronavirus – e i loro exploit sono stati resi possibili anche dal fatto di giocare in gara secca. Non c’è la controprova, ma non c’è mai: bisogna accontentarsi di vederla così.
LA STRADA GIUSTA PER IL FUTURO?
E allora, perché non pensare che la Uefa possa considerarla come strategia per l’immediato futuro? Ipotizziamo: fase a gironi comunque garantita in modo che ogni squadra giochi comunque sei partite (anche e soprattutto per il sempre annoso tema dei diritti tv), ottavi con andata e ritorno, poi una Final Eight in campo neutro (deciso ovviamente in anticipo, come la finale in situazione normale) e partite sui 90 minuti. Perché no? In questo modo si eliminerebbero sei gare a torneo (12 in totale, pensando a un’Europa League che garantisca andata e ritorno per sedicesimi e ottavi), cosa che permetterebbe anche di spalmare meglio i calendari nazionali e internazionali sulla stagione. Una Final Eight si giocherebbe ovviamente su una tempistica simile a quella vista ora, dunque possiamo ipotizzare che, volendo chiudere a fine maggio/inizio giugno, si potrebbe arrivare alla fine di aprile con gli ottavi che invece ora terminavano almeno un mese prima. Insomma: ne guadagnerebbero tutti, anche l’imprevidibilità del risultato e forse lo spettacolo. Una strada tracciata per necessità potrebbe diventare quella di domani: del resto anche dagli imprevisti si può trarre una lezione…